Forno,
negozio-locanda e osteria
Aveva già messo insieme un
bel gruzzoletto di soldi Dionisio Gattiani, venditore ambulante di stoffe
nei mercati di montagna, nell’alta valle del Reno, quando il 9 agosto 1909
fece il passo irreversibile di sposare, nella chiesa di Bargi, in comune di
Camugnano, Maria Puzzarini.
Lui nato il 9 agosto 1883
ad Alboreto, una borgatella di Bargi, lei nata a Farné, altra borgatella di
Bargi, l’11 novembre 1887. La casa dove trovarono sistemazione fu quella del
padre di Dionisio, ad Alboreto.
Tutto procedeva bene nella
vita dei due sposi, che si erano ben presto resi autonomi dalla casa paterna
andando ad abitare a Casa Carletto, un piccolo borgo nel comune di Castel di
Casio, limitrofo a quello di Camugnano. Rimaneva, tuttavia, il disagio
arrecato dal lavoro di ambulante di Dionisio, costretto a continue assenze
da casa; e questo era diventato sempre meno sostenibile per Maria, specie da
quando, nell’aprile del 1911, aveva ottenuto la gioia di una gravidanza.
Bisognava, dunque,
cambiare impostazione di vita.
La soluzione fu l’idea di
aprire un’osteria-locanda, con negozio alimentari e forno, a Badi un piccolo
paese del comune di Castel di Casio. Bisognava investire una considerevole
cifra per la costruzione di un immobile, ma la prospettiva di guadagno era
buona, poiché il paese non aveva ancora una tale struttura e, avendo 1200
abitanti circa, offriva una sufficiente clientela, poi, essendo su di una
strada abbastanza frequentata, presentava l’opportunità di clienti esterni.
Il luogo più adatto era
accanto alla chiesa, vicino all’ufficio postale e alla scuola elementare:
tutto era possibile poiché il terreno era in vendita.
Quando, il 2 gennaio 1912,
nacque il primo figlio, Guerrino, i lavori di costruzione dell’immobile
erano già avviati. Terminarono in ottobre, permettendo alla famiglia
Gattiani di trasferirsi a Badi il 10 novembre 1912.
Il progetto di nuova vita
cominciò a funzionare: Dionisio non doveva più partire col carretto pieno di
stoffe trainato dal somarello per ritornare giorni dopo. Certo il lavoro di
oste e di fornaio non era leggero: richiedeva di alzarsi prestissimo per
fare il pane e di andare a letto tardi per l’osteria, ma i due lo sapevano e
si erano dati dei turni. Quello che importava era lo stare vicini.
L’11 novembre 1914 nacque
un nuovo maschietto, il futuro padre Guglielmo.
Il bambino venne battezzato il 15 dello stesso mese e gli venne dato il nome
di Oscar. «Madrina» del battesimo, ovvero “santola”, fu la signora
Albina Mattei, sorella del sagrestano dei frati cappuccini di Porretta
Terme.
Furono giorni felici, che
terminarono quando Dionisio dovette andare al fronte per la guerra del
‘15-’18.
Ritornò a casa ferito da
una scheggia alla testa e con conseguenti attacchi di epilessia.
A Maria, tuttavia, non
parve vero di averlo riavuto. A Badi, infatti, si ebbero ben 44 morti; tra
questi anche Giacomo Gattiani, fratello di Dionisio.
Ma la vita, forte del
contagio esercitato dalla vivacità dei fanciulli, ancora una volta riuscì a
prevalere, a Badi come altrove. Vita vuol dire apertura al futuro e vittoria
sui ripiegamenti in se stessi; e la vita di nuovo sbocciò in casa Gattiani
con la nascita, il 1° febbraio 1921, di un altro figlio: Mario.
I fanciulli a Badi
crescevano proprio badesi, cioè con una viva fierezza di paese non poco
alimentata dalla contrapposizione con i paesi vicini, che nei grandi era
amichevole, ma che nei fanciulli era presa alla lettera, con la conseguenza
di sassaiole con i coetanei di Suviana — il paese più vicino — che
frequentavano la scuola elementare di Badi. In aula tutto era in pace, ma
appena fuori non di rado si formavano due schieramenti che si prendevano a
sassate, indubbiamente non mirate rasoterra all’uomo, ma a parabola per
spaventare e mettere in fuga. Per fortuna c’era la possente figura del
maestro Divo Mazzotti, che metteva in fuga tutti e le sassaiole si
concludevano così, o meglio con qualche scapaccione a casa per i ragazzi che
il maestro denunciava ai genitori.
I figli di Dionisio in
questa faccenda dovettero fare, almeno per qualche volta, la loro parte a
difesa della “superiorità” del paese di Badi; ma certo non mancarono
gli scapaccioni di mamma Maria, meno indulgente di papà.
I grandi non lanciavano
sassate, ma motteggi. Così dicevano che quelli di Suviana “mangiano la
pecora con la lana”, per dire che proprio erano dei primitivi e degli
incapaci. Verso quelli di Stagno, che è una borgatella vicino a Bargi,
lanciavano l’epiteto di “malstagnà”, per definire degli
inconcludenti. Agli abitanti di Monte di Badi davano degli “spacciaciocchi”,
grezzi, dato il loro lavoro di poveri boscaioli.
Da Suviana, però, partiva
il contrattacco di un “mangiagnocchi”, per dire che i badesi erano
legati alle patate, con le quali, appunto, si fanno gli gnocchi.
La questione dei
nomignoli, fenomeno sociologico molto diffuso a quei tempi, a Badi era a
livello endemico, poiché se li davano tra di loro gli stessi compaesani e
non c’era a Badi uno che non avesse un soprannome. Solo le donne, tranne
alcune eccezioni, venivano risparmiate.
Ad esempio, Emidio veniva
chiamato “Medioquercia” per la sua corporatura. Giuseppe era per
tutti “il Bago”, cioè il chiacchierone. Ugo era detto “Paisan”,
perché si diceva che sapesse tutto del paese. Giorgio per le sue idee era
detto “Bulgaro”. Vincenzo doveva sopportare un “Vacca”, perché
quasi sempre barcollante per il troppo vino. Aldo era detto “Trappola”
perché chi andava a casa sua finiva molto spesso coinvolto in qualche
bicchiere di troppo. Un altro Emidio veniva detto “Medioburba”, cioè
furbo a metà.
I nomignoli creavano a
Badi un clima che si potrebbe avvicinare a quello della goliardia e del
nonnismo maggiormente sano tra i militari; permettevano di lasciare da parte
il nome battesimale, considerato con il massimo rispetto, e quindi di
instaurare un clima relazionale diverso da quello propriamente cristiano.
Tutti andavano in chiesa a Badi, ma poi tra di loro se la vedevano con
qualche distanza dal Vangelo, che rimaneva in tutto il suo valore. Dunque
c’era a Badi, pur insieme a tanta ricchezza di solidarietà, un senso di
difensiva e di propensione all’ironia, a cui non era estraneo l’influsso
della vicina terra toscana, fin troppo maestra nell’arte di canzonare.
L’economia era povera. Nei
campi declivi di montagna si coltivavano patate, grano, orzo, granoturco,
pomidoro, lupini, ceci. Per gli animali si coltivavano vecce, ruviotti ed
erba medica. Il poco artigianato consisteva nell’intrecciare dei panieri.
Un po’ di pesce alcuni se
lo procuravano dal torrente Limentra che scorreva nella vallata. I metodi
erano, però, regolarmente abusivi. Il senso dell’Italia, della legge, subiva
adattamenti a Badi, soprattutto all’indomani dei dolorosi 44 lutti subiti
per una guerra ritenuta inutile e incomprensibile.
La pesca si faceva,
dunque, di notte. Il metodo consisteva nel fare un piccolo sbarramento nel
corso del Limentra, in modo che il flusso dell’acqua venisse ristretto ad un
punto dove veniva collocato un intreccio di vimini. I pesci, snidati con
sassate, seguivano la corrente e finivano tra i vimini.
La mattina scendevano al
Limentra i ragazzi a prendere i pochi pesci che restavano.
Come ogni altro ragazzo
Oscar si formò in questa cultura montana, fatta di bontà, di vivacità e
anche un po’, se si vuole, di “testa dura”.
E sulla “testa dura”
Oscar ebbe a fare alcune riflessioni vedendo come la capretta, che gli
avevano regalato, quando incontrava quella di un suo amico, cominciava a
fare con quella “coccetto”, proprio come, in altri termini, faceva
lui con i suoi di casa e non solo.
Nel silenzio della
chiesa: i “Vieni” di Dio
Il parroco di Badi, don
Domenico Brusori, aveva ormai 75 anni e sentiva il bisogno di avere un
cappellano che si dedicasse ai giovani. Il vescovo accolse la sua richiesta
e gli inviò un sacerdote giovane, di 26 anni, don Pio Mazzetti.
Fu con don Pio che Oscar
si preparò al sacramento della Cresima, che gli venne amministrato il 27
luglio 1923 dal card. Giovanni Battista Nasali Rocca. Gioia su gioia in casa
Gattiani, perché cinque giorni dopo, il 1° agosto, si ebbe una nuova
nascita: Elsa, una bella bambina, che attrasse l’attenzione di tutti, come
già era avvenuto per Mario che allora aveva 2 anni.
Oscar in tutta questa
“rivoluzione” interiore ed esteriore cominciò a fare visite frequenti al
SS. Sacramento. Bastavano pochi passi per essere in chiesa, nel silenzio che
cominciò a “scoprire”.
Ne seguì un vero amore per la preghiera, che lo condusse ad essere più
buono, più riservato. A giudizio di Dionisio tutto l’andare in chiesa di
Oscar non era un buon segno, perché a casa, ed era ben evidente, da fare ce
n’era: la pulizia nel negozio, nel forno, nell’osteria. C’era da andare a
prendere la legna per il forno, e tanti altri lavoretti. Non che Oscar fosse
uno scansafatiche, ma stava un passo indietro rispetto all’impegno di
Guerrino, che era già esperto nel condurre il mulo, e presto sarebbe andato
con lui a prendere la legna nel bosco e avrebbe sorvegliato l’osteria perché
nessuno, in stato di ubriachezza, portasse via qualcosa.
Un giorno a tavola, papà
Dionisio disse quello che pensava:
“Ti, purin, t’avrese
una carne fratina!”; e non era un complimento. Mamma Maria, aveva un
parere più netto, perché, lungi dal pensare che avesse “una carne
fratina”, era arrivata a considerare Oscar, uno dalla “testa dura”.
Don Pio, però, non vedeva
male le visite di Oscar in chiesa, anzi ne approfittava per parlargli di
Gesù, della Madonna, con l’idea che Oscar avesse la “vocazione”.
A Porretta Terme l’invito a farsi “fratino” padre Diego da Fanano, ex
vicedirettore del seminario serafico di Imola, glielo aveva fatto. E don
Pio, che aveva particolare simpatia per i frati cappuccini, essendo in
contatto con padre Bernardino da S. Agata Feltria, suo compagno di
ordinazione sacerdotale e insegnante presso il seminario serafico di Imola,
favorì con buone parole la cosa.
Così un giorno Oscar andò
da mamma Maria e le disse: “O mama ì vò andar in ti frà”. Sua
madre gli rispose con una frase stroncante: “Chi vot chat voia, che t’è
un teston!”.
Don Pio, però, riuscì a
persuadere i genitori a lasciare che Oscar andasse tra “i fratini”.
Dionisio e Maria pensarono
che in definitiva il figlio avrebbe studiato, poi le cose sarebbero maturate
in un senso o in un altro. In questa prospettiva anche il cuginetto Primo,
figlio del fratello di Dionisio deceduto in guerra, fu lasciato al parere di
padre Diego.
Oscar e Primo partirono
alla fine di settembre del 1924 con padre Diego. Arrivarono al convento di
Faenza a sera inoltrata, mentre i frati e i ragazzi erano a cena. Il
rettore, padre Cherubino Costa, accolse i due con brevi parole e li condusse
nella zona dei ragazzi.
Tutto apparve austero, i
frati avevano il volto molto serio, anche se non triste. Tuttavia i due
cugini videro che il vicedirettore, padre Federico da San Giovanni in
Persiceto, era molto gioviale, rompeva un po’ lo schema “ieratico”
del frate, così ben testimoniato dalle foto del tempo. Insomma non tutto era
austero e c’era spazio, nei momenti di ricreazione, per l’allegria. Però
padre Federico l’austerità la mostrava tutta di colpo quando dava dei
solenni scapaccioni a destra e a sinistra se le cose sembravano sfuggirgli
di mano: ma, pazienza, bastava non farlo arrabbiare.
Oscar comunque si trovò
bene: l’ambiente era stimolante per lo studio e la preghiera, mentre la meta
di essere un giorno un frate lo affascinava. Non aveva un’idea chiara della
vocazione: l’unico criterio che seguiva era quello di trovarsi bene.
Per Primo le cose non
erano così: francamente si aspettava di meglio e di più a tavola, inoltre
avrebbe desiderato una situazione di maggior affetto, di cui aveva estremo
bisogno dopo la morte del padre. Comunque non fece storie e si adeguò.
A Faenza i due ragazzi
rimasero un anno, poi vennero inviati al seminario di Imola.
Era il 7° centenario della
morte di san Francesco. Di lui si parlava continuamente in conferenze e
nelle celebrazioni liturgiche. C’era aria di festa e i ragazzi erano
coinvolti attivamente con l’impegno di preparare piccole commedie
celebrative, oltre a quelle che il programma di svago solitamente prevedeva.
A Imola si stava decisamente meglio. Cominciarono, però, a far capolino gli
scapaccioni di Oscar e a farne le spese, con sua grande sorpresa, fu proprio
Primo, che una volta da lui si buscò, in una partita a calcio, un “calcio
di rigore” nel di dietro.
Primo, non per le pedate
del cugino, ben presto si convinse che la sua strada non era quella dei
frati e ritornò a casa sua.
Oscar, invece, era
contento di tutto, forse “lo stress” di casa sua, tra negozio, forno
e osteria, lo spinge non poco a restare; ma, sinceramente, voleva proprio
farsi frate, anche se gli sfuggiva cosa veramente voleva dire questa
definizione. Per il momento era avere un abito, un’identità riconosciuta e
rispettata e, ovviamènte, stare accanto a Gesù.
Oscar pian piano percepì
nel dono dello Spirito la vita religiosa con maggiore chiarezza. Così decise
di andare in noviziato a Cesena. Il 15 novembre del 1929 era davanti al
maestro dei novizi, padre Natale da S. Agata Feltria, frate austero e nello
stesso tempo colto, avendo conseguito la laurea in teologia. Il maestro lo
interrogò sulle sue intenzioni, gli disse gli orari del noviziato e gli
assegnò una stanzetta. Gli chiese poi quale nome desiderava prendere da
religioso. Oscar gli rispose che gli sarebbe piaciuto prendere il nome di
Paolo, ma questo era già stato assegnato e così il maestro gli suggerì il
nome di Guglielmo, in onore del card. Guglielmo Massaia, cappuccino, grande
missionario in Etiopia. Così Oscar prese il nome di fra Guglielmo.
Fra Guglielmo ricevette
poi l’abito di panno grezzo senza il cappuccio, il cingolo con la corona del
rosario e i sandali. Ebbe pure il “capperone”, che era una sorta di
cappa che copriva le spalle, una maglia di lana, che era possibile
rafforzare con pezze durante l’inverno, e i cosiddetti “panni di gamba”.
Gli abiti civili fra Guglielmo li portò nel guardaroba, pronti per essergli
restituiti nel caso di un ritorno in famiglia. Nel caso contrario gli abiti
sarebbero stati dati ai poveri.
Il capperone e la maglia
rafforzata con pezze quell’anno divennero più che necessari: fu infatti un
inverno molto freddo.
Un embrione di
riscaldamento era previsto per tutti nelle sere rigide d’inverno. In una
stanza c’era un grande camino con un bel fuoco per riscaldarsi prima di
andare a dormire sopra il “paglione”, disteso su di un assone che
faceva da letto, ma le stanzette erano prive di vetri alla finestra, solo un
foglio di carta oleata proteggeva dal freddo. Il corridoio del noviziato,
poi, non avendo il soffitto, dava direttamente sulle capriate e sui
travicelli che sostenevano i coppi, dalle cui fessure, quando nevicava e
c’era vento, entrava tanta neve.
In tali condizioni nei
piedi si formavano spesso i geloni che, spaccandosi, sanguinavano.
Ma l’anno del noviziato
non era fatto solo di inverno. C’era la primavera, meravigliosa sulla
collina dove era collocato il convento. C’era l’estate con il suo caldo e la
sua ventilazione sempre presente sulla collina. L’aria era salubre anche
perché il mare era distante non tanti chilometri. C’era l’autunno con i suoi
colori.
Non c’era pericolo che un
ragazzo prendesse dei chili in noviziato.
Si facevano, infatti, ben
tre quaresime. La prima era quella dell’avvento, la seconda detta “la
benedetta” cominciava il 7 gennaio, poi c’era la quaresima di
preparazione alla Pasqua. Nei giorni di festa, però, c’era sempre un
supplemento di cibo a tavola, anche se lo si doveva assumere, come
correttivo per mantenersi nel clima quaresimale, in ginocchio.
A queste austerità si
aggiungeva la disciplina con un flagello per tre volte la settimana: il
lunedì, il mercoledì e il venerdì. Al proposito così dicevano al numero 68
le Costituzioni in vigore promulgate il 26 giugno 1926: “E i frati
disciplinandosi pensino col cuore pietoso al loro dolce Gesù Figlio di Dio,
legato alla colonna, sforzandosi di sentire in sé una particella de’ suoi
dolori; e dicano in quel mentre il Miserere, il De profundis, l’antifona
Cristus factus est pro nobis obediens con l’orazione Respice”. Sommando
tutto si arrivava ad un quarto d’ora.
Ci si alzava poi tutte le
notti, a mezzanotte, per la recita in coro dell’ora liturgica detta
“Mattutino”.
Infine c’erano le azioni
correttive, che consistevano nel portare una corda al collo con appeso un
sasso per chi, distratto, faceva cadere qualcosa a terra o nel portare una
pezza di stoffa sopra gli occhi per chi, in strada, aveva dimostrato di
avere uno sguardo vagante qua e là, o nel mangiare in ginocchio in
refettorio, davanti a tutti, in caso di disobbedienza.
Ma c’era gioia nel
noviziato, quella portata da Cristo. Guai ai musi lunghi e, nei momenti di
ricreazione, c’era proprio allegria. I ragazzi intendevano bene che stavano
percorrendo un cammino di elevazione, di ascesi e non di oppressione: essi
seguivano Gesù Cristo crocifisso e risorto.
Ben spiegava questo padre
Natale nelle sue conferenze sul Vangelo e le Costituzioni. Queste al numero
246 prescrivevano che il Vangelo fosse sempre “davanti agli occhi”;
“essendo impossibile ordinare leggi e statuti per tutti i casi
particolari che potrebbero accadere”; “esortiamo nella carità di
Cristo tutti i nostri fratelli, che in ogni loro operazione abbiano davanti
gli occhi il sacro Vangelo, la Regola a Dio promessa, le sante e lodevoli
consuetudini e gli esempi dei Santi, indirizzando ogni pensiero, parola ed
operazione ad onore e gloria di Dio e a salute dei prossimi; e così lo
Spirito Santo in ogni cosa li ammaestrerà”.
Poiché le Costituzioni
parlavano di considerare bene gli esempi dei santi, il padre maestro
provvedeva a far circolare tra i novizi delle biografie di santi. A fra
Guglielmo il maestro diede questo impegnativo libro: “Barbarie e trionfi”,
che parlava dei primi martiri francescani.
Un’istruzione poi colpiva
tutti i giorni i novizi: erano le massime scritte sulle porte di ogni
stanzetta. Fra Guglielmo le imparò a memoria tutte, rimanendo
particolarmente colpito da questa citazione tratta dall’”Imitazione di
Cristo”: “Vale più conoscere se stessi che conoscere tutti gli enigmi
della natura”.
Questa massima guidò fra
Guglielmo ad esaminarsi, a cogliere i suoi difetti, specialmente quello
dominante, che, in sostanza, era il suo temperamento combattivo: come le due
caprette che facevano “coccetto”.
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