Nel 1950 il corpo debilitato non sopportò un
abbassamento di temperatura e padre Guglielmo si buscò pian piano una bella
polmonite in piena estate, che lo costrinse al ricovero in ospedale.
Il medico che lo visitò rimase esterrefatto
nel vedere le piaghe che si era procurate col cilicio e la flagellazione.
Il dottore ne attribuì la colpa "all’istituzione" e chiamò il padre
Guardiano apostrofandolo: "Perché queste cose!?". Il guardiano, che non era
molto incline alle discipline e ai cilici rispose prontamente: "Lo vada a
domandare a lui!".
Fu in quei giorni, precisamente il 5 giugno
1950, che papà Dionisio venne accolto quale ortolano nel convento di Cesena:una presenza dolce per padre Guglielmo.
Quando, il 9 maggio del 1958, colpito
dall’"asiatica", lascerà la terra per il cielo, il vuoto che subentrò rivelò
quanto era stata gran de quella presenza umile, discreta, solitaria,
laboriosa, orante.
Padre Guglielmo non solo faceva pregare i
novizi, ma anche li faceva lavorare secondo quanto aveva detto san Francesco
e recitavano le Costituzioni.
Il lavoro che padre Guglielmo trovò da fare
ai novizi, oltre le pulizie, il giardinaggio e la cura della chiesa, fu
quello di modellare dei vasi di argilla, che venivano cotti in una fornace.
Il tutto portava al convento l’offerta di qualche soldarello.
Il lavoro di vasaio non era senza
sacrificio. Bisognava, infatti, stare con le mani nell’umidità e questo
diventava difficile quando era freddo e i geloni, non del tutto sconfitti da
un unguento che padre Guglielmo ad un certo punto cominciò a dare ai novizi
perché se ne spalmassero i piedi.
Il lavoro fu un rischio per un novizio
dell’annata del 1952, che, di debole costituzione, si ammalò. Curato senza
risultati in convento per 20 giorni, dovette essere ricoverato con 40° di
febbre all’ospedale con la diagnosi di pleurite. Lì il novizio ci rimase ben
due mesi. Padre Guglielmo andò a trovano tutti i giorni, portandogli spesso dei dolci che le cappuccine gli
preparavano; lo incoraggiava, pregava con lui, lo divertiva con racconti
ameni tratti dalle biografie dei santi. Quando il novizio ritornò in
convento non fece più il vasaio. Poi quel lavoro venne lasciato perdere.
La gente, che non aveva dimenticato
l’impegno che il maestro del noviziato aveva avuto come soccorritore
durante il passaggio del fronte, vedendolo per la strada, cominciò ad
invitarlo a dire una buona parola ai loro ammalati, a benedirli.
La ritiratezza di padre Guglielmo, pur
rimanendo rigorosa, si stava accompagnando con quell’«ire per mundo» di cui
parla san Francesco nella sua Regola.
Andava dagli ammalati di sera tardi e vi
restava fino al tempo dell’ufficiatura del "Mattutino". Spesso i novizi lo
vedevano comparire a mezzanotte ansante per la strada in salita. La sveglia
per il "Mattutino" la dava lui, perché, preso dall’assistenza agli ammalati,
rinunciò anche, al tratto di sonno che gli concedeva la funicella.
Con gli ammalati padre Guglielmo riusciva
benissimo, avendo sperimentato di persona il bisogno di cure e di conforto.
Aveva poi un modo commovente per porsi al servizio dell’ammalato: si
metteva in ginocchio davanti a lui per trovarsi così alla sua altezza.
Una volta venne chiamato presso un
ricoverato in ospedale, molto malato e bisognoso di conversione. Padre
Guglielmo giunse al suo capezzale quando già era buio e passò tutta la
notte in ginocchio davanti al letto dell’ammalato, pregando lungamente, dopo
averlo confortato ed invitato ad aprirsi alla misericordia del Signore.
L’uomo rimase tanto colpito da quella presenza discreta e orante che si
confessò. La mattina dopo con volto gioioso disse ai parenti che si era
confessato da un frate piccolo, piccolo.
Cose come queste divennero note a diversi
sacerdoti che decisero di confessarsi da quel frate così caritatevole. Non
ne rimanevano mai delusi perché egli era pari alla sua fama. Li confessava
mettendosi in ginocchio e parlava loro con un’eloquenza semplice, che veniva
dal cuore. Citava i santi: i suoi discorsi erano tutti intessuti di detti ed
azioni dei santi; difficilmente padre Guglielmo citava se stesso. I
sacerdoti uscivano dal confessionale tonificati.
Ma la stessa cosa avveniva per i laici,
anche se con loro non si metteva che raramente in ginocchio.
La confessione con padre Guglielmo era un
gustare la misericordia di Dio, era un vivere la dolcezza del padre
misericordioso della parabola evangelica.
Di porta in porta a mendicare
Il 9 marzo del 1952 padre Guglielmo partì
con il canonico Carlo Baronio, terziario francescano, alla volta di S.
Giovanni Rotondo per incontrare padre Pio.
L’idea del viaggio era di don Baronio, padre
Guglielmo si era accodato, con il rischio di essere ripreso gravemente dai
superiori perché era vietato ai frati di andare da padre Pio. La scappatoia
che dovette adottare fu probabilmente quella di un pellegrinaggio a Monte
Sant’Angelo; poi, una volta là, avrebbe compiuto l’infrazione di andare da
padre Pio.
Don Carlo Baronio, con il suo prestigio, era
di garanzia: era un uomo di cultura e di profonda pietà. Dal 1922 fino al
1946 era stato direttore del giornale diocesano di Cesena "Il Risveglio".
L’8 dicembre 1925 aveva dato inizio ad un’opera di accoglienza dei
fanciulli poveri ed abbandonati che chiamò "L’Istituto dei figli del
Popolo".
L’opera era dotata di un foglietto propagandistico: "Sulle vie del
Bene".
Quando padre Pio vide padre Guglielmo gli
disse subito severo, in tono di rimprovero: "Perché sei venuto qui?". Poi lo
accolse benevolmente, dandogli l’opportunità di confessarsi e di servirgli
la Messa. Era quanto bastava a padre Guglielmo per sentirsi fuori di sé.
All’altare di S. Francesco aveva visto "vivere" la Messa con un amore di
compartecipazione al sacrificio di Cristo come mai gli era accaduto. Ne
rimase totalmente impressionato e sospinto a presentare a Dio il suo niente
per avere da lui la grazia di seguire da vicino il Cristo povero, umile e
crocifisso.
La scappatella non ebbe seguito, mentre
invece ebbe seguito quella di un frate che, qualche mese prima, in
pellegrinaggio ad un santuario vicino a 5. Giovanni Rotondo, con il gruppo,
che lo desiderava, fece una capatina a vedere padre Pio. Dallo stesso
convento di S. Giovanni Rotondo partì la segnalazione al ministro generale
che, in visita a Bologna, fece mangiare in ginocchio in refettorio davanti a
tutti il povero frate.
Per padre Guglielmo fino a luglio tutto fu
un incanto, ma in seguito si trovò di fronte ad un’operazione finanziaria
del guardiano che gli suonava male. Infatti quest'ultimo aveva deciso di
investire una cifra presso il commendatore Giambattista Giuffré, che nel
1945 aveva dato vita ad un’organizzazione finanziaria in grande stile fondata, purtroppo, sulla
illusione che nel tempo l’erogazione degli alti interessi pagati (fino al
100%) ai capitali depositati, reggesse.
Padre Guglielmo che era vicario e quindi
aveva il compito di controfirmare il registro di amministrazione, non lo
fece fino a quando il ministro provinciale, padre Teodorico da Castel S. Pietro, in visita canonica, lo indusse a firmare spiegandogli
"questo e quest’altro".
La silenziosa risposta che il vicario e
maestro dei novizi diede fu quella di una scelta ancor più radicale di
"Madonna Povertà"; la gente di Cesena lo vide andare di porta in porta a
mendicare un po’ di cibo, quando restava fuori del convento per il desinare,
perché impegnato nella confessione delle Cappuccine.
Il 4 ottobre 1955 padre Guglielmo e i novizi
andarono al monastero delle cappuccine per celebrare, unitamente alla comunità delle suore, il beato transito del serafico padre S. Francesco. Tra
loro c’era madre Chiara Scalfi del monastero di Ferrara. Presidente della
Federazione dei Monasteri delle Cappuccine dal mese di marzo, su indicazione
del padre Clemente da S. Maria in Punta, assistente della Federazione,
nominato tale dalla Congregazione per i Religiosi il 10 maggio 1953, stava
svolgendo una visita canonica al monastero.
Madre Chiara, rimasta colpita dalla forza
del "fervorino" di quel frate dalle gote scavate e dallo sguardo infiammato,
chiese subito un colloquio con lui e tra i due incominciò un’intesa
profonda.
Felice per quell’incontro, padre Guglielmo
continuò a fare la questua di un po’ di cibo. In convento per questo suo
gesto non c’era affatto il consenso universale e la strada era tutta in
salita.
Difficile anche la situazione nel noviziato
a causa di un novizio proveniente da un seminario diocesano, che aveva una trentina d’anni, cioè il doppio degli altri e che, per tale motivo voleva
comandare su tutti. Padre Guglielmo pazientava, ma un giorno di primavera
del 1956, visto che il problematico novizio non faceva che creare
distrazioni durante una prova di canto, dopo qualche richiamo all’ordine, di
colpo diede spazio all’uomo vecchio e, con un guizzo agilissimo, si alzò e
sbatté in testa al novizio il librone dei canti e degli inni. Il novizio
rimase sbalordito e divenne più calmo, comprendendo che era
illusorio pensare di plasmare il noviziato a suo piacimento.
La strada percorsa da padre Guglielmo si
inerpicò addirittura quando, in occasione del capitolo provinciale elettivo
del 1957, non venne eletto dalla sua comunità, come era consuetudine per i
vicari, per partecipare al capitolo, unitamente al guardiano, che ne aveva
il diritto.
I capitolari riuniti presso il convento di
Bologna, rimasero molto dispiaciuti di questo e decisero di eleggere "Extra gremium Capituli" padre Guglielmo come quarto consigliere del nuovo ministro
provinciale.
Fu una buona scelta perché la presenza di
una figura come quella del maestro dei novizi di Cesena era molto importante
in quel momento nel consiglio del ministro provinciale. Infatti c’era
preoccupazione circa la povertà dei frati nei riguardi delle operazioni
Giuffré. In concreto erano stati fatti, in buona fede, alcuni investimenti
ufficiali presso il commendatore in vista della ristrutturazione di alcuni
conventi; a questi si aggiungevano quelli a titolo personale di alcuni
frati, che avevano raccolto soldi dalla gente per consegnarli a Giuffré,
avendo da lui il 100% di interesse che consegnavano alla gente, meno una
cifra per il convento.
Il guaio era che il banchiere aveva avuto
già una perquisizione da parte della finanza alla fine di marzo del 1957, e
che la Sacra Congregazione Concistoriale, due mesi dopo, aveva emesso un
decreto che vietava a tutti gli ecclesiastici di intrattenere rapporti
finanziari con Giuffté.
L’anno dopo scoppiò clamorosamente "il caso Giuffré" con un enorme crac economico.
Subito il ministro generale impose alle
province monastiche coinvolte, la restituzione ai civili delle somme andate
in fumo. Fu una vicenda umiliante a cui la provincia monastica riuscì a fare
fronte con molti stenti.
Padre Guglielmo, presente nel consiglio,
visse tutta la tensione e il dolore di quei momenti.
Una delle decisioni del nuovo ministro
provinciale fu quella di ristrutturare il noviziato giudicato non più idoneo
ad accogliere i giovani. I lavori cominciarono nel settembre del 1957. La
planimetria a corridoio centrale, con stanzette a destra e a sinistra, venne abolita per una a corridoio laterale, dalla parte del claustro, mentre
dall’altra c’erano le stanzette, più lunghe di quelle precedenti. Restarono
le finestrelle di prima. Il noviziato ebbe poi un secondo piano per supplire
le stanzette abolite al primo.
Venne poi dotato di un impianto di
riscaldamento a termosifone con una caldaia tipo Cornovaglia, a legna e
carbone, che veniva messa in funzione nel tardo pomeriggio, così la sera e
il mattino seguente nei noviziato c’era un bel teporino.
L’arredo delle stanzette prevedeva letti a
rete e materassi a molle.
Ma per il resto le cose erano uguali. In
particolare rimaneva la disciplina, che decadde solo dopo il Concilio
Vaticano II. Padre Guglielmo la sostituirà con la recita quotidiana del
Rosario, in ginocchio con le mani sotto le ginocchia.
Padre Guglielmo che, come maestro dei
novizi, aveva anche lui una stanzetta nel noviziato, si vide di fronte ad un
letto con rete e materasso. Come prima soluzione mise sotto il lenzuolo
pezzi di legno e ferro, poi decise di dormire per terra sopra alcune
assicelle.
Nessun novizio tuttavia venne a sapere che
il suo letto era sempre intatto, infatti quando uno di essi bussava alla sua
stanzetta, padre Guglielmo apriva appena la porta e sulla soglia si metteva
in ginocchio. Il novizio ugualmente si inginocchiava e il colloquio si
svolgeva in quella posizione.
I novizi non sapevano niente neppure del
cilicio che spesso portava. Solo una volta, nel 1960, padre Guglielmo si
tradì e un novizio scopri che usava quello strumento di penitenza.
Avvenne, infatti, che padre Guglielmo non
badò a togliere dalla sua biancheria, depositata nei mucchio comune, lo strumento di penitenza, e, poiché tutta la biancheria veniva lavata dai novizi,
il cilicio si trovò nella vasca della lavanderia. Padre Guglielmo si accorse
della dimenticanza, corse di sotto e chiese:
"Dov’è la mia roba?". Il novizio al lavoro
disse che era dentro la vasca. Allora padre Guglielmo gli disse di
allontanarsi un po’ e, cercando di non farsi vedere, prese il cilicio, ma il
novizio con la coda dell’occhio lo vide, irto di punte come
un filo spinato. Ne rimase impressionatissimo e appena poté sussurrò la sua
scoperta ai compagni: "Padre Guglielmo porta il cilicio!".
Tutti rimasero colpiti: chi era dunque padre
Guglielmo, che a tavola mangiava pochissimo, ma era nello stesso tempo
attento alla loro fame fino al punto che, quando vedeva uno un po' palliduccio, lo invitava a fare un’integrazione della mensa con una seconda
porzione presa in cucina?
Già se l’erano chiesto quando una volta,
sempre nel 1960, dovendo punire due novizi, che avevano litigato mentre lui
stava intrattenendosi con il padre Provinciale, videro che puniva pure se
stesso: i due novizi si misero in ginocchio in refettorio insieme a padre
Guglielmo. Il guardiano, che vide la cosa, rimase spiazzato del tutto:
"Perché anche lei in ginocchio?". "Perché la colpa è anche mia. Se non fossi
stato tanto col padre Provinciale la cosa non sarebbe successa".
Uno dei due novizi puniti era quello che
aveva visto il cilicio.
Quel novizio apparteneva alla provincia di
Cosenza e dovette ritornare nella sua provincia monastica, dalla quale,
però, subito uscì, ma padre Guglielmo gli rimase fermo nella mente, come un
modello di carità a cui sempre ispirarsi.
La devozione alla Madonna padre Guglielmo
l’aveva alimentata sulla base della tradizione dell’Ordine, che aveva
assimilata a partire dalle biografie dei santi francescani. Come testo
proprio su Maria aveva avuto a disposizione l’aureo volumetto di S. Alfonso
de’ Liguori, ricco di citazioni mariane di autori francescani.
La consacrazione al Cuore Immacolato di
Maria era stata introdotta nel libretto di Pietà, edito a Isola del Liri nel
1928, ad uso dei frati, solo nel 1951, sotto l’influsso del grande magistero
mariano di Pio XII. Prima c’era solo la consacrazione al sacro Cuore di Gesù,
ma padre Guglielmo la consacrazione a Maria l’aveva fatta fin da quando era
studente, molto probabilmente per indicazione di padre Leonardo da Mercato
Saraceno. Nel libretto di Pietà, tuttavia, già erano presenti i segni di una
grandissima devozione alla Vergine Immacolata.
Padre Guglielmo tra la fine degli anni 50 e
l’inizio degli anni 60 approfondì molto la devozione alla Madonna e allo
Spirito Santo sulla scorta di due testi.
Nel 1958, infatti, uscì un bellissimo libro
di mons. Beniamino Socche: "Il Verbo incarnato e la Madonna"; Editrice Age
Reggio Emilia 1958; esso seguiva il piano cristocentrico e mariano presente
nel magistero di Pio XII.
Padre Guglielmo conosceva bene Mons.
Beniamino Socche, vescovo di Reggio Emilia dal 12 maggio 1946, e prima
vescovo di Cesena. La sua parola era carica di sapienza e di immediatezza.
Famosa rimase la frase detta al suo clero parlando della devozione alla
Madonna, in relazione alle difficoltà del celibato sacerdotale: "Figlioli! O
lei o un’altra!".
Quando era a Cesena mons. Socche amava fare
delle mezze giornate di ritiro nel convento dei cappuccini e non si mostrava
mai scostante con i frati, per questo padre Guglielmo, maestro dei novizi da
pochi giorni, lo invitò a dire due parole ai ragazzi, ed egli lo fece molto
volentieri.
Il testo di mons Beniamino Socche trovò
grande accoglienza nei conventi, anche perché affermava la tesi francescana
che il Verbo si sarebbe incarnato anche in assenza del peccato originale.
Nel libro il vescovo faceva menzione al
"Trattato della vera devozione alla Madonna" di S. Luigi Grignon de Montfort.
Fu questo riferimento che condusse padre Guglielmo a leggere il testo del
Grignon de Montfort in una edizione delle Paoline del 1959.
A queste due letture seguì, nel 1961-62,
quella di un altro libro di mons. Beniamino Socche: "Maria Mediatrice",
edizioni Age Reggio Emilia 1961. Il libro veniva divulgato gratuitamente per
l’intervento di un insigne benefattore. Nel noviziato di Cesena ne entrarono
molte copie ad uso dei novizi.
Il testo, al capitoletto 3°, trattava del
«Mistero che associa Maria allo Spirito Santo». In esso erano
riportate parole del Montfort, di Giovanni Eudes, di Giovanni
Olier, di Michele di S. Agostino.
Mons. Beniamino dava questa entusiasmante
prospettiva:
"Lo Spirito Santo e Maria hanno dato Gesù al
paganesimo imperante all’inizio della Chiesa, e lo ridaranno a qualunque secolo: anche quindi al nostro secolo della
tecnica e del materialismo, purché vi siano degli apostoli vivi per lo
Spirito Santo ed operanti per mezzo di Maria". Nel capitoletto 5°
l’argomento era "Lo Spirito Santo e l’Immacolata nella dottrina di padre
Massimiliano M. Kolbe".
Questi testi presentavano con limpidezza
come la devozione allo Spirito Santo e la devozione a Maria sono
concomitanti e centrate a Cristo, quindi orientate alla crescita dei fedeli
in Cristo.
Bisogna dire che nell’Ordine la devozione
allo Spirito Santo non aveva molte stimolazioni. Tuttavia nel "Manuale di
Pietà, ad uso dei frati minori Cappuccini", la novena di Pentecoste, articolata sui sette doni dello Spirito Santo, poteva essere recitata
usualmente, perché composta in modo tale da risultare una permanente "Pia
pratica".
C’era il "Veni Creator"; c’erano invocazioni allo Spirito Santo:
«Spirito Santo, Spirito di verità, venite nei nostri cuori; date ai vostri
popoli lo splendore della vostra luce, affinché vi riescano graditi
nell’umiltà della fede»; «Venite, o Santo Spirito, riempite i cuori dei
vostri fedeli, ed accendete in essi il fuoco del vostro amore»; «Spirito
Santo, Spirito divino di luce e d’amore, vi consacro il mio intelletto, il
mio cuore e la volontà mia, tutto il mio essere, nel tempo e nell’eternità.
Sia il mio intelletto sempre docile alle celesti ispirazioni ed alla dottrina della
S. Chiesa cattolica, di cui voi siete infallibile guida; sia il
mio cuore sempre infiammato dell’amore verso Dio ed il prossimo; sia la mia
volontà sempre conforme alla volontà divina, e tutta la mia vita sia una
fedele imitazione della vita e delle virtù del nostro Signore e Salvatore
Gesù Cristo, al quale col Padre e con voi siano (resi) onore e gloria per
sempre. Così sia».
C’erano queste bellissime parole rivolte a Maria da parte
degli studenti di teologia:
"Per tuam intercessionem, o Mater bonorum studiorum, Spiritus Sanctus animam meam impleat lumine et fortitudine, prudentia
et humilitate; det mihi voluntatem rectam, intelligentiam, memoriam,
facilitatem sufficientem, docilitatem praesertim mentis et cordis ut in
omnibus, secundum divinae Sapientiae consilia, progredi possim".
L’esortazione finale di mons. Beniamino nel
capitoletto 5° era questa:
"Prega lo Spirito Santo, perché ti dia grazia e
forza per lavorare, nel tempo che ancora ti sarà
concesso di vivere sulla terra, con l’Immacolata, in special modo negli
ambienti della tua famiglia, del tuo lavoro e delle tue conoscenze".
Da qui l’intensa devozione di padre
Guglielmo per lo Spirito Santo, che si alimenterà del magnifico magistero
sullo Spirito Santo di Paolo VI.
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