Confessore delle cappuccine di Lagrimone
Le Costituzioni rinnovate, da tempo
annunciate, furono pubblicate “pro manuscripto” il 26 novembre 1968.
L’impatto che ebbero tra i frati fu molto forte.
Padre Guglielmo le studiò attentamente. Considerò molto il n° 46, che
definiva la povertà evangelica:
”Massimo ideale e la stessa ragione della nostra vita”. Aggiungendo,
poi: “Nei Capitoli sia generali che provinciali e, se parrà opportuno,
anche locali, deliberiamo sul modo di osservarla sempre più fedelmente, con
forme più consone al tempo suscettibili quindi di continui aggiornamenti”.
Queste parole prospettavano la necessità di un confronto senza
dispersione del carisma, cioè del dono dato a Francesco e ai suoi figli nel
mistero di Cristo e della Chiesa, con la realtà con temporanea.
Il punto centrale del discorso era che il mondo contemporaneo ha bisogno di
carità, cioè di sacrificio, di donazione continua. La carità, testimoniata
nella fraternità francescana, è dunque la vera condizione per un approccio
col mondo: con misericordia, con attenzione, con aggiornamento culturale. La
povertà radicale di S. Francesco era libertà per la carità.
Tutto questo per padre Guglielmo era: “La povertà integrale per la carità
vicendevole e universale”.
Nel capitolo provinciale del 14-19 luglio 1969 venne discussa, come
augurabile, una fraternità di forte testimonianza. Era questa una
prospettiva caldeggiata da padre Clemente da Santa Maria in Punta, che
presiedeva il Capitolo. Visto questo, padre Guglielmo trovò il coraggio di
mettersi in ginocchio davanti a tutti i capitolari chiedendo il permesso di
andare a Lagrimone per assistere le suore, che pochi giorni prima, il 6
luglio, erano entrate nel nuovo monastero. I capitolari ascoltarono la
richiesta, ma non si espressero poiché la cosa era di competenza del
ministro provinciale. Tuttavia tutti i capitolari rimasero impressionati
dall’umile richiesta in ginocchio di padre Guglielmo, che si accusava anche
di poca corrispondenza al Signore e all’ideale di san Francesco: lo faceva
con sincerità, senza alcuna inflessione di protesta contro chicchessia.
In quei giorni gli giunsero tristi notizie su suo fratello Guerrino: era
malato di tumore. Ricoverato all’ospedale di Porretta Terme, aveva i giorni
contati. Corse quindi al capezzale del fratello e vi rimase per ore in
ginocchio. Continuò la sua assistenza per una settimana, fino al 28 luglio
1969, quando Guerrino lasciò la terra per il Cielo.
Al termine del Capitolo padre Guglielmo aveva presentato al ministro
provinciale una richiesta: restare per una settimana al mese a Cesena e il
resto trascorrerlo a Lagrimone. Questo portava con sé il pericolo che
spostasse il suo punto gravitazionale da Cesena a Lagrimone. Ottenne,
ovviamente, solo il contrario della sua richiesta: una settimana a Lagrimone.
Padre Guglielmo usò una reiterata insistenza, senza tuttavia mai essere
indisponente, per ottenere di andare a Lagrimone. Non fu, però, questa ad
ottenergli il permesso, bensì il fatto che era stato richiesto dalle suore
cappuccine come confessore e che il vescovo di Parma vedeva bene questa
scelta. Dunque, solo una settimana al mese.
Come alloggio a Lagrimone ebbe una stanzetta nella modestissima foresteria
del monastero. Restava, però, quasi sempre in chiesa fino a tarda notte,
quando si appisolava sul pavimento reso meno freddo da un panno.
La luce del monastero era quella dei residui delle candele di varie chiese
che alcuni devoti procuravano. Così, di notte, per leggere la Bibbia, una
“Bibbia di Gerusalemme” che non risparmiava di sottolineature a biro o a
matita, per meglio imprimere nella mente e nel cuore la Parola, accendeva
uno spezzone di candela dietro l’altro. Una volta, mentre con la preghiera
si elevava a Dio, che lo interpellava con la sua Parola, vinto improvvisa
mente dal sonno, si addormentò in posizione tale che la fiammella della
candela bruciò un po’ della Bibbia e anche un po’ della sua barba. Al
bruciore si svegliò di colpo. La cosa divenne un aneddoto che suscitò sempre
l’ilarità delle suore.
Come fece ridere i frati il fatto che una volta, ritornando da Lagrimone in
treno, padre Guglielmo, si addormentò tanto profondamente che si svegliò non
a Cesena, ma ad Ancona.
Ma il treno l’usava poco, solo quando gli acquistavano un biglietto,
esonerandolo dal fare l’autostop, un sistema da lui molto praticato. Padre
Guglielmo chiedeva il passaggio non come era lo stile comune dei giovani,
cioè con il pollice levato; lui si metteva a lato della strada con le mani a
croce sul petto, in preghiera. La gente lo vedeva e si fermava. Qualche
volta chiedeva il passaggio ad auto ferme interpellando, a mo’ di questua,
il conducente, ma questo metodo era rischioso, una volta, infatti, un
signore lo insultò con ogni villania. Un conducente che lo conosceva vide e
prese a bordo padre Guglielmo, che per tutto il percorso rimase raccolto a
pregare per colui che l’aveva offeso.
Altro rischio dell’autostop era il tempo, nei due significati di orario e di
situazione meteorologica, come accadde, il 31 gennaio 1969, quando si trovò
alle 23 al crocevia Cervia-Cesena. Nessuno lo prendeva a bordo e infuriava
un temporale. Inzuppato per bene, riuscì a raggiungere un’abitazione e a
fare una telefonata ad una colonia vicina tenuta da suore. Il telefono
trillò nell’ufficio della colonia: “Sono un frate. Sono al crocevia
Cervia Cesena. Vi chiedo la carità di venirmi a prendere”. Le suore lo
prelevarono con un’auto. Gli diedero un po’ di brodo per riscaldarlo, ma lui
non lo mandò giù, probabilmente aveva dolori allo stomaco. Poi lo
alloggiarono in modo da potergli asciugare i panni. Un disastro quella
notte; ma la mattina dopo una suora avvicinò padre Guglielmo e gli rivelò il
progetto che aveva da tempo: entrare in clausura. Così la sorella, dopo un
po’ di tempo, andò a far parte delle cappuccine di Lagrimone.
Il tempo, a volte, voleva dire anche orario per un boccone e quando questo
non arrivava e già c’era tanta fame, le cose erano proprio preoccupanti. Ciò
accadde, in pieno inverno, durante una questua di mattoni per il convento
delle cappuccine di Cesena, Padre Guglielmo era in strada intirizzito dal
freddo, chiedeva un passaggio, quando un confratello, quello che era
assistente all’ANIC di Ravenna, lo vide. Era l’ora del pranzo e lo invitò
con sé, ma padre Guglielmo doveva andare da una signora di Russi che aveva
una ditta di laterizi. Alcune ore dopo, l’assistente religioso dell’ANIC
vide di nuovo padre Guglielmo, davanti a sé. “Oh! Sei venuto qua!?”.
“Sono venuto a trovarti un attimo”. Era sfinito dalla fame, nessuno
lo aveva invitato per un boccone. Il confratello capì subito la situazione e
gli disse di prendere qualcosa. Aveva solo un pollo lessato e gli passò
quello. L’affamato, pur senza ingurgitarlo, se ne mangiò una buona metà, poi
ripartì.
Ma aldilà degli episodi avventurosi, l’autostop, dal punto di vista
apostolico, funzionava benissimo. Padre Guglielmo, fine psicologo guidato
dallo Spirito, entrava rapidamente in contatto con la gente e spesso
coglieva il “bandolo della matassa esistenziale” delle persone. Ciò
avvenne con un signore che andò poi da suor Chiara a dire che padre
Guglielmo gli aveva detto tutto quello che aveva in cuore.
Il paradiso della Redenzione
A Lagrimone padre Guglielmo saliva spesso
con dei giovani desiderosi di pregare e di collaborare alla sistemazione del
parco attorno al monastero. I giovani pernottavano con sacchi a pelo sul
pavimento della foresteria e per i pasti prendevano quello che “Madonna
povertà” presentava loro. Un piccolo riguardo le suore avevano per padre
Guglielmo preparandogli uno zabaione alla mattina, ma l’integratore
dietetico finiva regolarmente ai ragazzi. Tanti giovani andavano dalle suore
per vedere la loro esperienza, rimanendo affascinati dal loro ideale.
Erano i giovani del ‘68. Giovani in ricerca di autenticità, di radicalità.
Erano i giovani affascinati dagli hippy, dai “figli dei fiori”.
L’impatto che la vita di Lagrimone aveva sui ragazzi confermava a padre
Guglielmo che la sua linea di approccio al mondo contemporaneo era esatta.
Per i giovani quel frate in toppe e zoccoli era del tutto contemporaneo,
anzi addirittura alla moda, visto che andavano blue jeans sdruciti e
sbiancati con la varecchina.
Padre Guglielmo a Lagrimone appariva un cappuccino ritirato nell’ombra
luminosa della cella del suo cuore e nello stesso tempo aperto all’incontro
con tutti, fino a lasciare che il suo tempo fosse gestito dal donarsi agli
altri, al punto da non avere orari di difesa.
Pieno di fede, considerava quasi immediato il rendere la terra un cielo, per
la presenza di Dio nei cuori. Parlava di “paradiso della Redenzione”.
Era questa un’espressione da lui coniata, manifestata già in una lettera al
ministro provinciale del 6 agosto 1967:
«Questo è ben certo: il Vangelo è valido sempre per tutti e per tutto,
cooperante Spiritu Sancto; le due frasette sopra citate («Andate senza
borsa... senza bisaccia...»: «Amatevi come io ho amato voi») bastano per
risolvere tutto e per fare di tutto il mondo il nuovo Paradiso terrestre
della Redenzione, più bello di quello della creazione».
Su questi concetti insisteva molto, ed essi rimasero punti di
riferimento stabili in tutta la sua vita. L’espressione, non biblica, si
basa sul linguaggio corrente per cui paradiso è sinonimo di stato di gioia,
di beatitudine. L’espressione, probabilmente, padre Guglielmo la elaborò a
partire da una pagina del Catechismo di S. Giovanni Maria Vianney sulla
preghiera, udita durante un qualche corso di esercizi e affidata alla
memoria: “La preghiera ci fa pregustare il cielo, come qualcosa che
discende a noi dal paradiso”; “Anche questo ci dà la preghiera: che
il tempo scorra con tanta velocità e tanta felicità dell’uomo che non si
avverte più la sua lunghezza”.
Il significato base che padre Guglielmo dava all’espressione, da lui
coniata, era quello di beatitudine: nell’unione con Cristo, nell’abbraccio
ardente della croce, nell’apertura ai fratelli, nel rinnegamento di sé. E
poiché “dove abbondò il peccato ha sovrabbondato la grazia” il
“paradiso della Redenzione” offre un’intimità con Dio più alta di quella
data dal “paradiso della creazione”, cioè di quello interiore donato
da Dio agli uomini nella grazia dello stato di innocenza iniziale, al quale
erano annessi i doni preternaturali.
Da questo principale significato di gioia nell’intimità con Dio, padre
Guglielmo passava alla considerazione che la terra, qualora divampasse del
fuoco portato da Gesù (cfr. Lc 12,49) diventerebbe il “paradiso terrestre
della Redenzione”, cioè una terra plasmata, anche nelle sue realtà
temporali, secondo la carità. Una visione questa, che non misconosceva la
dolorosa parola di Gesù:
ӏ inevitabile che vi siano peccati, ma guai a coloro per i quali si
compiono”, che riconosceva la realtà del dolore, della fatica del
lavoro, della morte.
Un’utopia evangelica possibile, nella croce di Cristo, quella del
“paradiso della Redenzione”; un’utopia che permetteva di superare
visioni pessimistiche della realtà umana.
Il pensiero medioevale insisteva — senza però rimanervi vittima — sulla
caducità del presente. San Francesco, invece, pur considerando la caducità
dell’uomo e anche quella di tutta la creazione, che la fa gemere nell’attesa
della sua liberazione (Rm 8,20-22), insisteva piuttosto sull’incontro
trasformante con Dio. Egli considerava questa positività, che esige il
rinnegamento di sé e l’abbraccio della croce, molto più capace di difesa dal
mondo, perché capace di vincere il mondo e di trasformarlo, della cosiddetta
«fuga mundi».
Parlava spesso della necessità di espiazione per fare in Cristo quella
penitenza che i peccatori non vogliono fare. Qui si riferiva massimamente
all’esperienza espiatrice in Cristo di santa Veronica Giuliani, per la quale
aveva una grande devozione. In questa ottica della espiazione e riparazione,
vanno lette le penitenze di padre Guglielmo; esse, dunque, non miravano solo
alla mortificazione di sé.
Furono proprio i giovani a far nascere nel signor Demetrio Scaccaglia,
donatore del terreno del monastero, l’idea di una casa di accoglienza per
loro e la volontà di donare un’area per la sua costruzione da realizzarsi
nei pressi del monastero che era il centro forte della spiritualità. Madre
Chiara rimase all’inizio un po’ perplessa, ma poi, confrontandosi con padre
Guglielmo, vide che l’opera avrebbe fatto del gran bene. Per di più padre
Guglielmo si impegnava per la raccolta di offerte per la costruzione della
casa che sarebbe stata chiamata “Casa del Padre”. Essa doveva essere
luogo di formazione dei giovani alla carità universale, doveva essere un
piccolo modello del “paradiso della Redenzione”, costituito
sull’essere “tutto per ognuno e in ognuno tutti”: altro motto di
padre Guglielmo. Nella “Casa del Padre” tutto sarebbe stato
autogestito dai gruppi che non dovevano corrispondere nessuna cifra.
Il fervore per la costruzione della “Casa del Padre” portò subito a
fare, nel 1971, un timbro su cui era scritto: “Formazione all’amore
incessante per tutti i fratelli. Casa del Padre Nostro nel l’amore per
Cristo. 43020 Lagrimone (Pr)”. I lavori, tuttavia, andarono avanti piano
piano, perché legati al flusso delle offerte. La proprietà del fabbricato
sarebbe stata della Federazione dei monasteri delle Cappuccine.
Il monastero, secondo l’intenzione di madre
Chiara, doveva avere un forte orientamento alla Parola di Dio, secondo gli
inviti della «Dei Verbum» del Concilio. Si rendeva così necessario
avere delle Bibbie per le suore, cosa a cui padre Guglielmo provvide subito.
C’era poi la necessità di trovare un esperto nelle Scritture che
introducesse le religiose alla Bibbia.
Per questo padre Guglielmo interpellò don Natale di Montalti, un giovane
sacerdote di 31 anni, della diocesi di Cesena, cappellano a Gatteo a Mare,
dopo essere stato cappellano in altre quattro comunità.
Era fresco di studi, innamorato della Parola di Dio, era stato in contatto
con don Giuseppe Dossetti e aveva passato un periodo di riflessione nel
convento dei cappuccini di Cesena, senza accennare, però, ad un ingresso
nell’Ordine.
Cosi don Natale andò a Lagrimone ed intrattenne le religiose sulla Parola di
Dio. Le suore lo apprezzarono molto ed egli si trovò bene in quel clima di
fervore e di radicalità. Il risultato fu che il giovane sacerdote, chiese al
proprio vescovo il permesso di poter soggiornare permanentemente a Lagrimone.
Il vescovo di Cesena glielo concesse, visto il servizio che svolgeva al
monastero e il suo desiderio di vita ritirata.
Così l’il novembre 1971, quando la costruzione della “Casa del Padre
nostro” era già cosa decisa, don Natale si stabilì nella foresteria del
monastero di Lagrimone.
Padre Guglielmo decise poco dopo di lasciare la foresteria del monastero per
un “luoghetto”: un casottino, usato nel passato prima come forno e
poi come porcilaia, situato a poche centinaia di metri dal monastero. La
piccola costruzione era offerta in uso gratuito dai proprietari.
Quando padre Guglielmo lo fece vedere a don Natale era ancora pieno di
calcinacci e di sporcizia, al che il sacerdote, smarrito gli chiese:
“Padre è qui che dobbiamo vivere?”.
Si, gli disse padre Guglielmo. Aggiungendo: «C’è tutto, c’è tutto!».
Chiaro che non c’era niente, ma per lui, che voleva un luoghetto che
ricordasse quelli di san Francesco, non mancava nulla.
A destra di chi entrava, c’era uno spazio adatto a formare una cappellina. A
sinistra c’era un divisorio che formava un piccolo vano il cui soffitto
distava dal tetto quanto bastava per infilarsi dentro: quel sottotetto venne
adibito a dormitorio. Per salirci c’erano tre graffe di ferro fissate alla
parete.
Il piccolo vano sotto il “dormitorio”, venne suddiviso in una
minuscola cucina e in un servizio igienico. L’acqua mancava, ma vicino c’era
una fontana e quindi con un paio di secchi tutto era risolvibile.
Il “luoghetto”, proprio tipo “Rivotorto”, venne addirittura
benedetto dal vescovo di Parma in una sua visita al monastero.
La preghiera in esso prevedeva l’alzata notturna per la recita del
«mattutino». La sveglia la mattina era alle ore 5. La preghiera cominciava
con la recita dell’Angelus, seguiva l’antifona mariana «Sub tuum
praesidium», nella quale padre Guglielmo aveva inserito la consacrazione
alla Madonna: “E ci consacriamo tutti, quanti siamo e saranno sulla
terra, poveri peccatori, al tuo Cuore Immacolato”. Veniva poi recitato
il «Veni Creator» a cui seguiva questa preghiera alla SS. Trinità:
“SS.ma Trinità Padre, Figlio, Spirito Santo, ti adoriamo profondamente
e ti offriamo il preziosissimo Corpo e Sangue, Anima e Divinità, di nostro
Signore Gesù Cristo, presente in tutti i Tabernacoli del mondo, in
riparazione degli oltraggi con cui egli medesimo è offeso e per i meriti
infiniti del suo Cuore santissimo e per l’intercessione del Cuore Immacolato
di Maria ti domandiamo la grazia della conversione di noi tutti quanti siamo
e saranno sulla terra poveri peccatori”.
Poi veniva recitato al plurale “l’angelo custode”.
Quindi c’era questa preghiera:
”Noi crediamo, adoriamo, speriamo e ti amiamo o Signore. Ti domandiamo
perdono per tutti quelli che non credono, non adorano, non sperano e non ti
amano”.
Si recitava il rosario e infine le lodi, dopo avere pronunciato
questa preghiera adorante e laudante:
”Noi ti adoriamo o Cristo e ti benediciamo qui e in tutte le chiese
che sono nel mondo, per ché con la tua santa croce hai redento il mondo”.
Queste preghiere le aveva stabilite padre Guglielmo e avevano una
successione meditata. Di particolare importanza il fatto che alla
consacrazione alla Madonna seguiva il «Veni Creator».
Era un riferirsi a quanto accadde nel Cenacolo, dove Lo Spirito Santo scese
mentre gli apostoli erano attratti dall’incanto delle virtù della Vergine
sua Sposa, Madre di Cristo e Madre, in Cristo, della Chiesa.
La gente del posto fu, all’inizio, piuttosto
scettica nei riguardi degli abitanti del “luoghetto”, ma cambiò
opinione quando i due cominciarono ad andare di casa in casa per parlare di
Dio. La gente li sentì vicino, li vide disponibili. Vide che quella loro
vita si traduceva in capacità di attenzione per tutti.
Felice della benedizione del vescovo e del consenso entusiastico dei giovani
— era il tempo del san Francesco di Zeffirelli — e della gente, padre
Guglielmo, il 30 maggio 1972, scrisse da Cesena una lettera al ministro
provinciale chiedendo di poter dar vita ad un “luoghetto” nei pressi
di Cesena:
«Ora con l’obbedienza di V.P.M.R., vorrei subito fare altrettanto qui
nei pressi di Cesena uscendo dal mio convento amatissimo, allontanandomi
appena dai miei dilettissimi confratelli, pronto a dar loro mano nel
ministero, quando loro piacesse, in perfetta collaborazione, armonia e
carità, prima con loro e poi con tutti... per aiutare tutti i fratelli della
terra. Chiedo l’obbedienza di adattare subito un luoghetto qui nella zona,
presso a poco come a Lagrimone, di lasciare il convento, avviando una
piccola fraternità, per una piccola testimonianza a vantaggio di tutti i
fratelli del mondo, quale lo Spirito Santo vorrà dare, intercedente la
Mediatrice di ogni grazia, Maria SS.ma. Con tutti i santi e Angeli”.
L’intento di padre Guglielmo era quello di avere un “luoghetto” al
quale attirare qualche frate per una condivisione di vita, visto che gli era
stato chiesto di vedere se c’era chi lo volesse seguire.
Nella stessa lettera spiegava ancora il suo modo di intendere
l’«aggiornamento» in materia di povertà, di fronte alla nuova pubblicazione
“pro manuscripto” delle Costituzioni, avvenuta nel febbraio del 1971:
“Sono convinto che il n.s. Padre l’aggiornamento lo farebbe rifacendo
quello che ha fatto (come disse il nostro padre Pio)” Secondo lui quello
che dicevano le Costituzioni in materia era valido per tutti gli istituti
religiosi, ma non proprio per lo specifico carisma di Sn Francesco. Una
posizione rispettabile dal momento che non era unita ad un’azione di
contestazione. Quanto alla fraternità, molo evidenziata nelle Costituzioni
come fatto primario, padre Guglielmo era perfettamente d’accordo e lo
esprimeva nella lettera.
Il ministro provinciale con il suo consiglio aveva nel frattempo deciso di
fare un sondaggio sui “desiderata” dei frati, in modo da ascoltare la
voce della “base”.
Padre Guglielmo rispose per lettera il 31 luglio 1972:
”Ho ricevuto con piacere il vostro invito a esprimere i nostri
“desiderata”: Ecco, manifestai diverse volte in iscritto il mio desiderio
per un rinnovamento che tenti di ripresentare la vita e la regola del P. S.
Francesco; l’esperienza dei nostri primi santi cappuccini (...) Purtroppo
sinora i miei superiori non hanno veduto l’opportunità di dare la loro
approvazione per ciò che riguarda l’iniziativa esterna.., ma io riconosco e
dichiaro che questo è dipeso solo da me: non ho saputo proporre la cosa in
maniera adatta e soprattutto dalla mia incoerenza, superficialità, poca
fede, dissipazione, pigrizia, golosità, superbia, troppo limitata preghiera
e ascolto della Parola di Dio... Ecco:stando così le cose, con il desiderio
e la speranza di questa piccola fondazione, vorrei incominciare a vivere
subito l’ideale e viverlo sostanzialmente... per questo vorrei chiedere e
chiedere per amor di Dio, della Vergine, del PS. Francesco e di tutte le
anime... oltre al nonnulla che sto facendo, chiedo tre giorni alla settimana
(lunedì, martedì, mercoledì) di eremo, qui presso, dietro il convento nella
casa colonica abbandonata dai Monti è nell’area del convento, sotto
controllo del superiore.., come fosse in casa».
La soluzione della casa colonica venne lasciata da parte e la cosa
divenne fattibile presso la chiesetta di Celincordia, poco distante dal
convento di Cesena.
In questo desiderio di momenti di solitudine è facile riscontrare l’eco
dell’esempio di san Francesco, che si ritirava in solitudine sulla Verna, in
un luogo impervio, dormendo in una spelonca rocciosa, e di san Antonio che
si ritirava in una celletta isolata nel bosco presso il convento di Monte
Paolo.
Per questo il ministro provinciale gli concesse il permesso; la fraternità,
infatti, non solo è lontana dall’individualismo, ma anche dal collettivismo,
dove la persona viene annullata.
Per questo il ministro stabilì che la regola di frequenza al ritiro di
Celincordia gli venisse stabilita dal superiore locale.
Il 31 ottobre 1972 padre Guglielmo da Celincordia scrisse una lettera al
provinciale per dargli relazione di come aveva vissuto il ritiro:
«Sono le 20.10, domattina termino il mio ritiro che ho iniziato
giovedì scorso alle ore 18.
Sia per amor di Dio del dono che mi ha fatto lei e confermato il nostro
carissimo padre Guardiano “Bonum est nos hic esse!!”, sarei felice di
raddoppiarlo, ma troppa grazia.
Le circostanze mi hanno dato di celebrare da solo, di sera, dalle 9.00 alle
11.00, una sola volta.., ma tolto il momento della celebrazione e quattro
ore di lavori essenziali fatti da un falegname, sono sempre stato solo. Però
«numquam minus solus quam cum solus».
Veramente... chiesetta graziosa sempre col Santissimo, in adorazione. Le ore
del riposo e dei pasti sono state molto sbilanciate, ma soddisfacenti anche
troppo. Per il mangiare. Il P. Guardiano mi aveva raccomandato di mangiare,
infatti mi ero provvisto di pane a sufficienza ormai scartato, ricevuto in
carità al forno della stazione più un pacco di zucchero (1kg) avuto in
carità il giorno prima per Lagrimone (madre Chiara mi ha detto: la carità
che riceve per noi la dia pure ai poveri) e un certo numero di mele,
piccole, ma sane e buone (circa 5 al giorno). Speravo di trascorrere il mio
ritiro con questi vettovagliamenti veramente deliziosi ed abbondanti.
Domenica però è venuto l’amico Paolo per 5 minuti. Non ho potuto fare a meno
di prendere una minestra. Poi (domenica sera?) con autista è comparsa per 5
minuti la sig.na Barotelli (vera frate Jacopa) e mi ha lasciato di nascosto
un sacchetto di uva, con pezzi di pollo, vasetto di marmellata, un mezzo
litro di latte, affettato, tre mele... dolciumi.., troppo... troppo. In
questi giorni ho mangiato il pollo, ho preso il latte, ho assaggiato la
marmellata. Il resto lo riporterò via con due terzi dello zucchero. Ho
bevuto pochi cucchiai di vino (6 o 7) e pochi sorsi d’acqua. Spiritualmente.
Ho estremo bisogno di convertirmi in tutto. L’ho chiesto sempre. Vorrei
diventare un’anima veramente Eucaristica... Ho trascorso la maggior parte
del tempo qui in chiesa ginocchioni anche fino alle 24... alle 2 o 3. Vorrei
diventare anima veramente mariana... Ho pregato la Madre Celeste a farmi la
grazia recitando le tre corone con le mani sotto le ginocchia sulla pedana,
molto ruvida, baciando memore la terra, leggendo la Passione del Signore per
i miei dolori... (il rosario con le mani sotto le ginocchia è la pratica che
seguo in sostituzione della disciplina e la farei tutti i giorni completa,
ma raramente lo posso fare così...). Per l’ufficio ho recitato 134 salmi,
spesso leggendo parte del commento (Edizione Garofalo 3° volume). Poco altro
ho fatto. Il tempo mi fuggiva, che non me ne accorgevo... ecco perché mi è
capitato di mangiare alle 14 o 15... alle 22 o 23... Voglia perdonarmi
questa tiritera. Gliene farò ancora e se lei cestinerà, senza neanche aprire
la lettera farà benissimo. Però ora debbo ragguagliarla di tutto quello che
faccio e penso affinché possa rendersi conto di tutto e soppesare davanti a
Dio, se egli da me, da noi, vuole la famosa piccola fraternità, come lei sa.
Per impegnarmi un po’ alla riflessione, alla preghiera, ho chiesto a V.P.M.
Rev.da e al P. Guardiano (ora dico) due giorni alla settimana (martedì e
mercoledì) di eremo. Mi pare di avere avuto già l’obbedienza. Ne sono
felicissimo e ringrazio. Il dormire di questi giorni è stato bellissimo:
l’unica stanza adiacente è un caos di panche vecchie, finestre, sabbia,
carta, ecc... una portaccia del caos più 5 fondi delle cassettine di
polistirolo per le spedizioni di polli e relative coperte... è un dormire
come un picchio: sano, svelto, economico...
Ma la passione che urge in me e che deve proprio impossessarmi è l’amore per
tutti, per tutti, proprio per tutti i fratelli: tutti per ognuno e in ognuno
tutti.
Il precetto del Signore: Rimanete in me... Amatevi come io vi ho amato.
Bacio la S.D. Voglia benedirmi. Dev.mo F. Guglielmo.
PS. Sono le 23,20. Vado a cena. Poi un saluto a Gesù... e a dormire.
Domattina le Cappuccine».
Un «noviziato» e una «vestizione»
Il vescovo nell’ottobre del 1972 diede il
permesso della conservazione del SS. Sacramento nel piccolo oratorio. Per
questo padre Guglielmo ebbe la speranza di dare vita ad una fraternità per
la conduzione spirituale della “Casa del Padre”, tanto più che poco
prima don Natale gli aveva detto esplicitamente che era restato a Lagrimone
perché affascinato dal programma della povertà integrale per la carità
universale. Ciò non voleva ancora dire vita francescana perché essa
comprende, come fatto essenziale la fraternità, ma per ora era semplicemente
amicizia con san Francesco. A Lagrimone giunse poi un giovane, di nome
Piero, intenzionato a vivere l’ideale della povertà integrale per l’amore
universale e il discorso cominciò ad includere una vita fraterna.
In quei giorni il questuante della “Casa del Padre” era proprio in
ebollizione e cominciò a pensare a due comunità: una maschile e una
femminile che vivessero e diffondessero la spiritualità che proponeva per la
“Casa del Padre”.
Questi pensieri padre Guglielmo li riferiva in una lettera del 3 novembre
1972 al provinciale: «Potrà proprio sorgere presto la famosa “Casa del
Padre”.., scuola per tutti dell’amore universale.., infinito di Dio... per
tutti... per tutti... per ognuno...! Ci vogliono le Sorelle della Fraternità
Universale che incarnino, vivano e insegnino a tutti, nella Casa del
Padre... a tutti quanti passeranno e sosterranno... di passaggio... nella
casa dell’Amore, della Fraternità Universale, che incarnino fino all’osso
l’ideale della povertà.., l’ideale della carità fino a consumarsi e dare la
vita per l’ideale della carità.., per il “Tutto per uno e in ognuno...
tutti!”».
Però queste prospettive articolate attorno alla “Casa del Padre”
risultavano, per le suore cappuccine, tutte di padre Guglielmo e di don
Natale: loro erano suore di clausura.
Nella Pasqua del 1973, padre Guglielmo, don Natale e Piero andarono dal
vescovo per presentargli gli auguri e il disegno di un cammino di
“noviziato” da concludersi con una vestizione per la formazione di una
fraternità, che venne prospettata come propedeutica all’ingresso nell’Ordine
dei Cappuccini.
Dopo la visita al vescovo, padre Guglielmo chiese al provinciale di poter
restare a Lagrimone due giorni in più per seguire il promettente gruppetto,
ma il permesso non gli venne dato:
bastava la settimana che già aveva ottenuto come confessore.
Stando così le cose i tre decisero di vivere la novena della Pentecoste
nella chiesetta di Celincordia.
Gli abitanti dell’ex forno, il 16 luglio 1973, “vestirono la croce”,
cioè un abito dal cappuccio mozzo, con davanti e dietro tracciata una grande
croce. L’idea era di padre Guglielmo, il riferimento era a S. Francesco che,
come primo abito, appunto prese una tonaca sulla quale tracciò una grande
croce. Anche padre Guglielmo mise sul suo abito cappuccino la croce. Chi
presiedette la “vestizione” di don Natale e fratel Piero fu il
parroco di Lagrimone. Con tale abito, don Natale, venne chiamato dalla gente
padre Natale.
Della “vestizione” padre Guglielmo diede informazione al padre
provinciale con un lettera del 31 luglio 1973:
«Il giorno 16 c.m. P. Natale e Piero hanno vestito la croce, in omaggio
al P.S. Francesco, che si coprì del mantello povero e fuori uso
dell’ortolano del vescovo segnandovi sopra una gran croce con una scheggia
(S. Bonaventura). Per san Francesco la cui vita fu vissuta “seguendo nudo il
nudo crocifisso” che amò sempre munito della croce fino alla morte,
miracolosamente crocifisso, perché ogni uomo è stato redento e sarà salvato
dalla croce “spes unica”... Hanno vestito la croce coll’obbedienza del
vescovo di Parma, il degnissimo mons. Amilcare Pasini, nelle mani del
parroco di Lagrimone, il carissimo don Morello: hanno vestito la croce: il
nostro abito con cappuccio mozzo, cui hanno applicato davanti e di dietro
una grande croce di sacco, con la gran aspirazione di imparare a vivere
sempre più la povertà integrale e l’amore universale di Gesù, sommamente
proclamato dalla sua croce. Potevo restare estraneo a questo avvenimento? Ho
pensato ai nostri cappellani di ospedale che, quando sono in servizio
vestono il camice bianco; ho pensato alla pluriformitas che consente ai miei
confratelli di portare in buona coscienza quello o questo vestito
secolare... Allora ho creduto di poter anch’io, solo per quando sono in
servizio presso la nostra piccola fraternità, di indossare la croce con
loro, come loro, sebbene indegnissimo. Il nostro ecc. vescovo dando la sua
benedizione ha loro chiesto (ed espresso il suo voto) se il tutto era poi
per diventare dei Cappuccini. La risposta è stata: “Sì, toto corde, se
piacerà al Signore e ai superiori e ai Superiori Cappuccini... No, se non
piacerà al Signore nella persona dei superiori Cappuccini».
Questo dialogo era stato preparato da una domanda fatta ginocchioni al
veneratissimo vescovo in sagrestia alla presenza di mons. Triani, vic.
generale, e di un altro sacerdote, che fungeva da segretario, dopo la
celebrazione fatta da tutti cinque a chiusura della visita canonica fatta al
monastero. Ecco la domanda: «Ecc. Rev.ma, vestire la croce per avviarci
davvero nell’ideale della povertà integrale, onde vivere la carità
universale. E cosa troppo grande!... ci siamo detti: occorre farla nella
maniera più umile e tuttavia gerarchica. Per le mani del nostro parroco don
Morello... Se avremo la grazia di corrispondere a tanto dono... fra un anno,
fra due anni... imploreremo la grazia della santa professione nelle mani di
vostra Ecc. Rev.ma... Voglia benedire questi nostri sentimenti».
L’abito crociato padre Guglielmo lo indossava a Lagrimone, ma trovò
anche il coraggio di farsi vedere a Cesena.
La “vestizione” fece clamore e spinse due frati della Provincia
monastica di Parma ad andare a vedere, a titolo personale, come stessero le
cose.
Quando i due frati scesero dall’auto nel piazzaletto del monastero videro
padre Guglielmo che ne usciva con l’abito crociato. Subito si diresse
festoso verso i due confratelli, ma uno di loro cominciò ad apostrofarlo
dandogli dell’ipocrita e del pezzente. Gli disse che era una vergogna per
l’Ordine e che non faceva altro che seminare confusione. Padre Guglielmo si
buttò in ginocchio davanti a lui dicendogli che aveva ragione, che era uno
che faceva confusione: uno buono a fare solo confusione. Al che l’imponente
frate rimase sorpreso, ma integrò tutto nel suo giudizio stroncante:
un’umiltà così non era per lui concepibile. L’episodio è un perfetto
parallelo di quello di S. Ignazio da Laconi che, insultato da uno scolopio,
non ebbe altra reazione che quel la di dire che finalmente aveva trovato uno
che aveva detto la verità su di lui.
Poi quel frate andò a fare la sua “giustizia” con madre Chiara, che
“sequestrò” per due ore in parlatorio per cercare di convincerla che
la sua era una pazzia, un essere fuori dalla realtà.
Il frate pian piano ripensò a tutto quello che aveva detto, e partecipò poi
al 25° di professione di madre Chiara con animo molto mutato.
Al “luoghetto” i residenti stavano per giungere al numero di cinque,
però c’era chi si appoggiava alla foresteria del monastero. Due di loro
erano sacerdoti: un saveriano ed un cappuccino, missionario in Colombia.
Entrambi desideravano condurre un’esperienza tonificante per lo spirito.
Il padre cappuccino dopo un po’, trovò una bicocca posta a circa 4
chilometri dal monastero, in una località detta Il Querceto. In quella
bicocca, ottenuta in uso con affitto simbolico, si trasferirono tutti. Tre
di loro alla vigilia di Natale del 1974 gli altri due, padre Natale e fratel
Piero, ai primi del 1975.
Ho combattuto la buona battaglia
Padre Guglielmo, nel 1974, si ammalò di
herpes zoster al braccio sinistro. Pur sofferente, si trascurava e andava
avanti come se nulla fosse. Anzi, per gli strapazzi e il poco cibo, si trovò
in uno stato di debilitazione generale per cui il guardiano, l’8 luglio
1974, intervenne facendolo ricoverare all’infermeria del convento di
Bologna. Proprio in quei giorni padre Guglielmo aveva organizzato di andare
a Ferrara con un gruppo di persone, per assistere alla riesumazione della
salma di una cappuccina, suor Veronica del SS. Sacramento, che egli aveva
conosciuta. La suora era stata segretaria di madre Chiara Scalfi nel suo
compito di presidente della federazione. Dotata di incontri straordinari con
Dio, aveva vissuto nell’umiltà e nell’obbedienza più puntuale alla sua
superiora.
Giunto a Bologna, padre Guglielmo venne subito ricoverato presso la clinica
Toniolo, retta dalle suore della Sacra Famiglia.
Le suore rimasero colpite da quel frate sorridente, sempre pronto a tener
conto degli altri e non di sé. Una mattina furono addirittura impressionate
quando, entrando in cappella, lo videro ripiegato a terra sulla predella
dell’altare, davanti al tabernacolo.
Aveva ancora il braccio bloccato, quando venne riportato nel l’infermeria
provinciale. Ci sarebbe stata una lunga convalescenza e il futuro era
incerto per quel braccio. Così un giorno, avvicinato da uno studente in
teologia mentre era in cappella, disse le parole di Paolo (2Tm 4,7): “Ho
combattuto la buona battaglia. . . “. Non che pensasse alla morte, ma
pensava alla battaglia per la formazione di un “luoghetto”, che così
terminava.
Fisicamente si riprese e cominciò ad esercitare la mano con un pallina.
Chiese poi allo studente di fargli un po’ di ginnastica di riabilitazione
per il braccio. Questi si improvvisò, con un po’ di incoscienza,
fisioterapista. Lo metteva contro una parete e poi, pian piano, gli spostava
il braccio in modo che la mano si avvicinasse il più possibile al muro. Dopo
6 o 7 di quei movimenti, padre Guglielmo, con un sorriso, diceva: “Basta,
basta”. Lo studente, in quelle occasioni, vide le cicatrici causate dal
cilicio attorno alla vita di padre Guglielmo. Il cilicio padre Guglielmo
aveva cessato di portarlo da una decina di anni.
La fisioterapia funzionò perché il frate ricuperò gran parte del movimento
del braccio.
Ricominciò la vita di prima, con maggiore slancio, poiché accettò di essere
il confessore delle suore Clarisse di S. Agata Feltria. Vi si recava in
autostop e, a volte, a piedi, anche d’inverno, con la neve, così come faceva
per Lagrimone, quando a Parma non trovava un mezzo per i molti chilometri
che gli rimanevano da percorrere.
Quando andava a S. Agata Feltria, portava regolarmente con sé anche il
desinare, a meno che non avesse trovato un accompagnatore. Allora, per
riguardo a lui accettava quanto le suore preparavano.
Il desinare che portava consisteva in ben poco: un po’ di pane e un po’ di
secondo, tutto dentro un tegamino di alluminio.
Le suore una volta insistettero più del solito affinché accettasse quanto
era pronto per lui, ma con un sorriso aprì il tegamino dicendo: “Vedete
come sono goloso!”. Vi aveva messo dentro insieme alla minestra ed a un
po’ di pane anche un po’ di budino, ma, purtroppo, lungo il cammino, passo
dopo passo, il tutto si era fuso in un pastrocchione da far rabbrividire,
che però egli consumò.
Normalmente passava la notte nel monastero. Nella foresteria c’era sempre
pronto un buon letto, ma le suore tutte le volte lo trovavano intatto.
Partiva dal monastero a piedi e la gente che lo conosceva si fermava a
dargli un passaggio, ma spesso avveniva che non trovasse nessuno. Per lui,
tuttavia, l’andare a piedi era pregare e il tempo gli passava veloce,
veloce.
La presenza a S. Agata era tutta silenziosa, umile, nascosta. A Lagrimone,
invece, c’erano numerose persone da accogliere: le possibilità di
raccoglimento le doveva tutte rimandare alla notte. Era anche esposto alle
valutazioni, alle lodi; e la “prova delle lodi” gli riusciva dura.
Ad esempio, proprio in quei giorni, mentre esponeva ai terziari francescani
che era necessario maggiore rinnovamento nel francescanesimo e che si
augurava che venisse uno a dare il via a questo, un suo figlio spirituale
gli disse: “Lei, padre Guglielmo!”.
La risposta fu secca: “Io sono un buffone!”.
Un’altra volta un giovane che, avendolo visto a Lagrimone coricarsi con
sotto il capo un ciocco di legna, era uscito a dirgli: “Lei è un santo!”,
ebbe questa risposta, a muso duro: “Non dirmi mai più una cosa simile!”.
Il giovane rimase sorpreso da quella difesa aggressiva. Ma molte altre volte
reagiva meno seccamente con un: “Io sono uno scarabocchio”.
Nel cuore di padre Guglielmo c’era un’assidua vigilanza contro le lodi,
alle quali reagiva con i gesti che gli sembravano adeguati al momento, come
quando, dopo avere confessato una suora che lo considerava un santo, si mise
in ginocchio e confessò, a sua volta, i propri peccati.
Avvenne anche che alcune suore di Lagrimone, alle quali non piaceva del
tutto l’abito crociato che indossava, pensarono di farne un altro, anch’esso
tipo origini. Era di stoffa bigia, il colore dell’abito di san Francesco.
Stava proprio bene con quell’abito padre Guglielmo. Aveva un non so che di
giovanile, di moderno, tanto che una signora gli fece degli aperti
complimenti. Non occorreva altro per far sì che quell’abito non fosse più
indossato dal frate: ritornò a quello usuale a scampoli di stoffa.
E ci fu una piccola lotta per circoscrivere l’inaspettata osservazione
estetica di quella signora se domandò, con un candore incredibile, ad alcuni
studenti presenti a Cesena se l’abito che indossava era “abbastanza
austero”. Gli studenti, sorpresi dalla domanda, dissero un bel «sì!».
Finalmente la “Casa del Padre” fu ultimata. L’aspetto economico non
era, però, ancora risolto: restava da pagare una forte somma e bisognava
pensare ancora a tanta questua di danaro.
Venne inaugurata dal vescovo il 3 ottobre 1976. Padre Guglielmo non poté
essere presente perché ammalato.
Nell’estate del 1977, padre Umile dei frati Rinnovati di Corleone, andò in
visita a Lagrimone, trattenendosi per più giorni, con lo scopo di parlare
con madre Chiara sulla povertà francescana. Provò così l’esperienza del
Querceto e, poiché aveva in cuore di cercare di unificare le esperienze
forti in campo francescano dopo il Concilio, cercò di vedere se questo era
possibile con quel tipo di esperienza.
Padre Umile incontrò l’ispiratore del Querceto, padre Guglielmo, che appena
lo vide si inginocchiò festante, baciandogli i piedi.
I due si ritrovarono in ginocchio l’uno di fronte all’altro, continuando poi
a parlare in quella posizione.
Padre Umile ebbe diversi confronti con padre Natale, ricavandone
l’impressione che il suo interlocutore fosse tutto per la Parola di Dio e
non tanto per la povertà francescana, che pur molto amava. Insomma padre
Natale non si mostrò orientato ad essere coinvolto nell’esperienza di
Corleone.
L’amore per i padri del deserto
La comunità di don Dossetti aveva fatto da
base alla pubblicazione del testo “Vita e detti dei Padri del deserto”
a cura di Luciana Mortari, uscito nel 1975 su Città Nuova Editrice. Il testo
aveva già avuto una pubblicazione nel 1972, ma con un impianto diverso.
Padre Guglielmo dalla lettura del testo trasse un interesse vivo per i
“Padri del deserto”. In particolare per Sant’Antonio Abate di cui lesse,
molto probabilmente in concomitanza della prima pubblicazione intitolata
“I padri del deserto-detti”, la biografia scritta da Sant’Atanasio.
In essa era stato colpito dal capitolo 14° in cui Sant’Atanasio parla di
come Sant’Antonio appariva dopo che uscì dal “fortino”:
”Antonio uscì come un iniziato ai misteri da un santuario e come ispirato
dal soffio divino. Allora per la prima volta, apparve fuori dal fortino a
quelli che erano venuti a trovarlo (...). Il suo spirito era puro, non
appariva triste, né svigorito dal piacere, né dominato dal riso o
dall’afflizione. Non provò turbamento al vedere la folla, non gioiva perché
salutato dalla gente, ma era in perfetto equilibrio». A questo testo si
riferiva padre Guglielmo, quando scrisse nel 1977 sul breviario della
signorina Anna, grande frequentatrice del Querceto, queste parole
attribuendole, tradito dalla memoria e preso dall’espressione “paradiso
della Redenzione”, a Sant’Antonio Abate: “Il paradiso può trovarsi in
ogni luogo, tempo, circostanza quando il cuore è tutto pieno di Dio”. La
scriverà ancora in una lettera alle cappuccine di Lagrimone, il 19 novembre
1983,: “Il paradiso può trovarsi in ogni luogo, quando il cuore è tutto
pieno di Dio”.
I “Padri del deserto” avevano anche
l’ammirazione di padre Natale e di fratel Piero così che tutti e tre, nel
1977, decisero di costruire un piccolo romitorio nel bosco in alto, a 40
minuti di strada. Esso venne fatto con del legname rimasto dalla costruzione
della “Casa del Padre”. Misurava due metri per un metro e mezzo. Vi
poteva dormire solo una persona. Nel minuscolo romitorio c’era un altarino,
con un accenno di tabernacolo nel quale veniva posto il SS. Sacramento;
c’era pure una brandina per passare la notte.
Poco distante venne organizzata una grotta di Lourdes, sfruttando
un’anfrattuosità della montagna.
Padre Natale usava in ogni celebrazione eucaristica dire un pensiero alle
cappuccine. Era un servizio prezioso, ma col tempo ci fu il desiderio da
parte delle suore di avere qualche voce diversa. Così per avere un po’ di
varietà le suore cominciarono a chiamare altri sacerdoti, lasciando libero
padre Natale, che contento celebrava al Querceto, già frequentato da
parecchie persone.
Padre Natale così approfondì il suo legame con il Querceto, anche perché
giunse una nuova presenza: fratel Lino. |