112 agosto 1939 padre Guglielmo passò dal
convento di Bologna a quello di Faenza con l’incarico di vicedirettore dei
ragazzi e di insegnante di matematica e geometria.
Successivamente, il 22 agosto 1940, passò a Lugo, sempre come vicedirettore
e insegnante di matematica e geometria. Doveva guidare una trentina di
ragazzi della quarta e quinta ginnasio. Tutti erano vivaci, ma sei erano
proprio sopra dalle righe.
I superiori confidavano che la sua figura orante, austera, caritatevole,
serena, fosse di modello nella formazione di quei ragazzi che si avviavano
ad entrare in noviziato.
I sei oltremodo vivaci agivano con un’inventiva sorprendente:
una volta, visto che era stata loro tolta la luce perché di notte non
facessero la baraonda, fecero un attacco volante e distesero il filo sopra
il soffitto delle stanzette in modo che chi voleva poteva avere la luce.
Scoperto dai frati l’impianto alternativo, si passò al provvedimento
drastico di chiuderli la sera in stanza, aprendo la porta alla mattina.
L’ingrato compito di chiudere le porte e di aprirle fu di padre Guglielmo.
I ragazzi notarono, però, subito che era comprensivo e mite. Una mitezza ad
oltranza, quasi inconsapevole della perdita di autorità che ne conseguiva.
La lotta alla “passione dominante” gli faceva perdere di vista altri
punti, ma questo è ciò che accade agli inizi del cammino per il
conseguimento della conformità a Cristo, conformità che rimane sempre
relativa alla condizione umana, anche nei grandi santi.
Tutto cercava di fare per avere il cuore dei ragazzi. Così a mensa, visto
che pranzava con loro dovendo vigilare, dava loro a turno parte della sua
porzione, che il cuciniere faceva un po’ più abbondante. E i ragazzi molto
apprezzavano questo gesto. Ma quando si trattava di mantenere un po’ di
disciplina durante la ricreazione i ragazzi, o meglio i sei discoli,
dimenticavano la loro gratitudine. Padre Guglielmo se ne stava in disparte a
recitare l’ufficio, poiché per vigilare non poteva andare in coro con i con
fratelli, ma i ragazzi avrebbero voluto che si mettesse a ridere e a
scherzare con loro come un buon cappellano. Quando, poi, faceva loro nel
primo pomeriggio, durante la preghiera, delle ammonizioni, mal le
sopportavano; per non dire degli sbadigli che facevano i più di loro alla
mattina durante la meditazione e la ribellione che manifestarono quando
padre Guglielmo cominciò, dopo la colazione, a domandare che cosa avevano
tratto dal l’ascolto di una pagina della “Passione del Signore” di
padre Gaetano da Bergamo. Le scene mute furono quasi la regola, fin quando i
più furbi, prima della colazione, andavano a sbirciare il libro.
I sei discoli, vista la sua mitezza, presero ulteriore coraggio e si misero
a cantargli degli stornelli durante la ricreazione, mentre stava recitando
l’ufficio. Era proprio una sfida al povero vice-direttore, che, per conto
suo, combatteva una guerra senza quartiere con se stesso per non esplodere.
Le cose precipitarono al punto che dopo una lezione di matematica, uno di
quei sei, non accettando osservazioni di sorta, gli si pose dinanzi a muso
duro per farla finita con quel “codardo” di vicedirettore. Altro che
codardo! Quel giovane vide un lampo negli occhi di padre Guglielmo, un lampo
che lo atterrì. Il combattivo “uomo vecchio” era emerso.
Per padre Guglielmo era il fallimento dell’incarico ricevuto dai superiori.
Si era a un mese e mezzo dall’ingresso al noviziato. Dodici ragazzi avevano
deciso di entrarvi. Tra loro tutti i sei discoli. Questo metteva in
un’atroce crisi il giovane vicedirettore, che avrebbe voluto avere il dono
della scrutazione dei cuori per arrivare ad una conclusione che gli desse
pace. Padre Guglielmo concluse che non era adatto ad un compito così
difficile e, con tutta umiltà, andò dal ministro provinciale chiedendogli di
essere rimosso dall’incarico per il bene dei ragazzi. Il ministro
provinciale lo comprese e il 14 luglio del 1941 lo trasferì a Ravenna senza
alcun compito di governo dei ragazzi: solo come padre spirituale e
insegnante di matematica e geometria.
I dodici ragazzi che avevano scelto di andare al noviziato partirono per
Cesena. Tutto bene, ma due dei sei, mentre salivano verso il convento,
dissero che stavano memorizzando la strada per ritornare a casa. Entrati nel
noviziato si accorsero subito che aria tirava e, dopo pochi giorni, tutti e
sei ritornarono a casa propria.
La notizia, sorprendente per chi non era al corrente dei fatti, giunse anche
a Ravenna dando un po’ di sollievo al cuore di padre Guglielmo, che aveva
messo in dubbio la sua capacità di cogliere l’animo dei ragazzi circa la
vocazione.
Tutto filava dritto a Ravenna sotto la guida
del guardiano, padre Cherubino Costa, e le cose non mutarono di una virgola
con la presenza del nuovo padre spirituale dei ragazzi, riservato, orante,
rispettoso, con uno sguardo profondo, sorridente, che si velò di mestizia
quando nell’aprile del 1942 gli giunse la notizia che il giorno 23 era
passata al cielo sua madre, dopo dolori acutissimi dovuti ad una fatale
occlusione intestinale.
Padre Cherubino, che era un consigliere del ministro provinciale, dopo la
“riabilitazione” di padre Guglielmo di fronte all’esito dei sei strani
novizi, non tardò a proporlo quale suo vicario; e tale venne nominato il 23
agosto 1942.
Tutto bene, ma anche a Ravenna, come a Lugo, la tavola dei ragazzi aveva un
regime ascetico inspiegabile vista la loro età. Inspiegabile, oltretutto,
perché non mancava la provvidenza per “i fratini”. Ma padre Cherubino
aveva le sue idee ascetiche. I ragazzi non avevano tardato a lamentarsi con
il loro padre spirituale, che mediava la cosa incoraggiando alla
sopportazione e citava gli esempi dei santi.
Venne però il momento che padre Cherubino dovette assentarsi per qualche
giorno e così il padre spirituale, essendo vicario, divenne la guida della
comunità.
E cosa fece? Aprì la dispensa facendo arrivare alla mensa dei ragazzi ogni
ben di Dio. In fondo era proprio imitare san Francesco, che sentendo i
gemiti di un frate che non reggeva ai morsi della fame gli apprestò subito
del cibo e, per non umiliarlo, ne mangiò anche lui.
A padre Cherubino, quando ritornò, non venne in mente l’episodio di
Francesco, ma si indignò davanti alla comunità con il vicario, che non
sapeva tenere la disciplina e che si era messo addirittura contro di lui. Il
povero vicario si mise come in uso in ginocchio, col capo basso, muto.
Il 2 gennaio 1944 padre Guglielmo venne inviato a Cesena con il compito di
insegnante di matematica del liceo. Altro incarico di dirigenza non gli
venne dato. Il disappunto di padre Che- rubino, che rimase consigliere fino
al 1945, ebbe dunque seguito.
Si era in piena guerra e il primo
bombardamento delle truppe alleate su Cesena si ebbe il 13 maggio 1944. I
frati capirono che non c’era tempo da perdere. Bisognava subito provvedere a
scavare un rifugio, anche perché il loro convento era diventato un obiettivo
militare, essendosi collocata nei pressi una postazione tedesca.
Si decise di fare un tunnel, che, partendo dal sotterraneo, nella posizione
sotto la cucina, andasse verso l’orto sbucando in due uscite.
Dunque tre uscite, per non rimanere intrappolati nel caso che gli ordigni ne
avessero ostruita una o due.
Per gli scavi vennero chiamati alcuni operai, ma anche i frati si misero a
spicconare e a portare via la terra con le carriole, lo stesso fecero i
novizi.
Padre Guglielmo era sicuramente quello che spicconava di più tanto che il
ministro provinciale, padre Mauro da Grizzana, gli chiese se fosse, così
generoso in tutto. Preso alla sprovvista padre Guglielmo si lasciò sfuggire
un sì. Era vero, ma non fu contento di averlo detto.
Completato lo scavo del rifugio si provvide a dotarlo di un impianto
elettrico e di una conduttura per l’acqua.
Il 15 e 16 giugno si scatenò una seconda ondata di bombardamenti da parte
degli alleati. Nel rifugio, oltre i frati e diverse persone dei dintorni,
entrarono anche i tedeschi che tenevano la postazione. Tra la gente c’era
anche un ebreo, che i frati stavano sottraendo ai rastrellamenti facendolo
passare per l’ortolano del convento.
Subito dopo un’incursione aerea, gruppi di soccorritori corre vano nelle
zone bombardate per salvare i feriti e liberare la gente intrappolata dalle
macerie. Nelle squadre di soccorso c’erano anche i frati. Padre Guglielmo,
fedele a quel sì che il ministro provinciale gli aveva fatto pronunciare,
era tra i primi a correre tra le rovine. Una volta fu visto in bicicletta
volare verso una casa nella zona dell’Abbazia della Madonna del Monte
colpita dalle bombe. Proprio in bicicletta, noncurante, come tanti altri
frati, della disposizione data due anni prima da padre Mauro da Grizzana,
che comminava la sospensione “a divinis” a chi tra i frati fosse
andato in bicicletta. Ora c’era la guerra con le necessità ad essa connesse.
Padre Guglielmo correva con la bicicletta pure ad assistere i feriti e i
moribondi all’ospedale.
I soccorritori provvedevano anche a dare sepoltura ai morti. Era un’opera di
pietà e anche di necessaria cautela per il pericolo di epidemie.
In quell’inferno le S.S. tedesche si erano scatenate alla ricerca dei
partigiani e di chi li aiutava. Le loro rappresaglie erano cariche di
orrore. Ad esempio, a Tavoliccio di Verghereto, verso l’alba del 22 luglio
le S.S. incendiarono un gruppo di case con dentro donne, vecchi e bambini,
mitragliando poi tutti quelli che uscivano per scampare alle fiamme. Gli
uomini erano stati presi prima e fucilati.
Le truppe di terra degli alleati, sparando cannonate giorno e notte,
giunsero in breve a pochi chilometri da Cesena. Due o tre di quelle
cannonate vennero sparate anche alla volta di padre Guglielmo e del
guardiano, che, scavalcata la mura del convento, stavano scavando una fossa
per seppellire un tedesco ucciso già attaccato dai topi.
L’epilogo della battaglia avvenne nella notte tra il 6 e il 7 ottobre. Il
fronte tedesco venne travolto e il 21 ottobre le truppe alleate entrarono a
Cesena.
Un gruppo di inglesi entrò nell’orto del convento e cominciò a sparare
raffiche di mitragliatrice dentro le finestre dello scantinato, lanciandovi
poi dentro una bomba, poco distante dall’ingresso del rifugio. Vedendo che
erano soldati inglesi, i tedeschi si arresero. Se fossero, invece, stati gli
“asiatici” non si sarebbero arresi, infatti tutti sapevano che le
truppe asiatiche erano feroci e tagliavano la testa con la scimitarra ai
prigionieri. Venti furono i tedeschi fatti prigionieri.
Padre Guglielmo pochi giorni dopo si ammalò di tifo. Si disse che la causa
era stata una nespola, raccolta in una pozzanghera, che aveva mangiato.
Altri dissero che erano state delle gallette lasciate dai soldati nei campi
e che lui aveva mangiato. Per qual che giorno lo fecero restare in convento
sotto l’assistenza di un medico, ma poi alla febbre si aggiunse il delirio e
così venne ricoverato all’ospedale Almerici. Il gruppo degli inglesi, per
paura del contagio, lasciò il convento. All’ospedale padre Guglielmo restò
per un mese e solo per una grazia di Dio riuscì a sfuggire alla morte. Gli
rimase la fragilità di malesseri intestinali, quando prendeva freddo.
Lettere classiche, ma anche calce e mattoni
Il 18 luglio 1945 padre Guglielmo venne
inviato di nuovo a Ravenna, da dove era partito padre Cherubino, trasferito
a Lugo quale direttore del probandato, e dove erano stati trasferiti gli
studenti presenti a Cesena.
L’incarico era di direttore degli studenti di liceo e di insegnante.
Coi ragazzi il direttore stabilì un clima di austerità e di confidenza,
condito con un pizzico del sapore dei “Fioretti di San Francesco”.
Succedeva che spesso padre Guglielmo non udiva la campana per l’alzata
notturna e per ovviare alla cosa dispose che il primo studente che si alzava
e vedeva che ancora era in stanza bussasse alla porta con colpi forti. Padre
Guglielmo non si svegliava al suono della campana perché si coricava molto
tardi, sostava, infatti, in chiesa lungamente, ed aveva un’ottima capacità
di prendere subito un profondo sonno. Poteva certo andare a letto prima, ma
per lui era difficile lasciare il tabernacolo. Il problema del sonno, poi,
in qualche modo lo avrebbe risolto. Sempre padre Guglielmo lotterà contro il
sonno, mai contro la minima insonnia.
Ma il direttore era ormai anche capace di accendere l’allegria durante la
ricreazione coi ragazzi, con battute di un umorismo delicato ed innocente.
I ragazzi sentivano che era molto buono, anche se a volte, quando facevano
chiasso, lo vedevano proprio rabbuiarsi in volto e giungere a dare solenni
scapaccioni correttivi.
Nella sua posizione di direttore e di insegnante padre Guglielmo vide che
aveva un grande ascendente sui giovani e questo gli permetteva di dare loro
molto dal punto di vista della formazione all’ideale francescano. Gli
piaceva essere insegnante perché gli permetteva quella ritiratezza che tanto
amava e per la quale aveva rinunciato alla prospettiva di fare il
predicatore. Suo desiderio era, quindi, ottenere la maturità classica nelle
scuole civili per poi frequentare all’università la facoltà di lettere
classi che, od altro e ne aveva tutte le possibilità intellettuali.
L’accesso all’università da parte di un frate aveva già un esempio in padre
Alberto De Vito, che vi era andato per il conseguimento della laurea in
“Lettere classiche”.
Per sostenere gli esami di maturità classica, padre Guglielmo acquistò i
libri necessari e si affidò ad un professore per lezioni private. Per questo
doveva ogni giorno uscire dal convento, ma non c’era dubbio che sgarrasse:
occhi bassi e via diritto.
Fin qui tutto bene, ma un giorno molto freddo, mentre passava come di
consueto davanti a un cantiere, un operaio cominciò a gridargli: “Va’ a
lavorare.., vagabondo!”.
Il “cappuccino ritirato” si fermò e si avvicinò guardando l’operaio
con un sorriso disarmante. Quindi si levò il mantello e cominciò a portare
pietre sull’impalcatura dei muratori. Gli operai rimasero sorpresi e lo
presero in grande simpatia.
Il ministro provinciale circa l’accesso all’università decise di non
assecondarlo, invitandolo, invece, a specializzarsi nella direzione
spirituale dei giovani.
Il 30 dicembre 1945 così scriveva padre Guglielmo al Ministro: “Fino
ad un mese fa non avevo compreso; avevo obbedito automaticamente come
rinunzia a studi specializzati; del resto posso assicurare che se mi avesse
mandato all’università, vi sarei andato molto volentieri per il bene della
Provincia e dei giovani, ma insieme col batticuore per dispiacere e
preoccupazione di dover tanto a che fare col mondo, cosa che io sento
proprio di temere e di aborrire. Ora lei nella sua bontà (che Iddio non la
condanni per questo) ha voluto affidarmi un compito infinitamente superiore.
Non debbo più specializzarmi in una scienza profana, altri faranno questo
meglio di me. Creda M.R. che godo a questa notizia, che so concreta, proprio
come di cosa mia, per ché sento di amare tanto la gloria e il bene della
nostra cara Provincia e dell’Ordine”.
La “cosa concreta”, non ancora in
mente al Ministro, padre Guglielmo la stava indovinando: sarebbe stato
maestro dei novizi. Pregò lungamente perché questa percezione non fosse
un’illusione ma diventasse realtà.
L’intuizione di padre Guglielmo era esatta.
Il ministro provinciale, padre Teodoro da Castagnaro, che i frati chiamavano
“la mamma” tanta era la sua bontà, nel maggio del 1946 lo inviò quale
maestro dei novizi a Cesena. Era accaduto che padre Mauro da Grizzana,
maestro dei novizi, era stato nominato consigliere del ministro generale e
quindi dovette andare a risiedere a Roma.
Quando il nuovo maestro dei novizi, per il quale si dovette richiedere una
dispensa, poiché non aveva ancora i prescritti 35 anni d’età per quell’ufficio,
entrò nel noviziato tutto era come prima. Unica novità nell’edificio erano i
vetri alle finestrelle al posto della carta oleata.
Un’altra novità aveva già fatto capolino in convento quando, nel dicembre
del 1943, venne acquistata una stufetta elettrica ad uso di un frate
infermo. A ciò era seguito nel 1944 un piccolo impianto di riscaldamento a
termosifone collocato nella stanza di lettura. L’impianto, nel gennaio del
1945, venne esteso poi ad altri ambienti.
Quanto al regime ascetico del noviziato era stato mitigato da padre Mauro da
Grizzana, ma i frati della comunità dissero a padre Guglielmo che bisognava
procedere come per il passato. Egli, che non ebbe modo di parlare con padre
Mauro, si presentò subito come maestro non da meno dei suoi illustri
predecessori.
Un giorno un novizio innervosito perché il maestro, per metterlo alla prova,
gli aveva detto ripetutamente che i vasi dei fiori che stava collocando sui
piani dell’altare non erano disposti bene, gli disse fuori di sé: “Lei
non è mai contento!”. Il nuovo maestro gli impose di mettersi in
ginocchio in refettorio nell’ora del desinare con una grossa corda sul
collo, che non era altro che il sottocoda del somaro del convento, e poi di
baciare i piedi ai frati sacerdoti. Quando il povero novizio cominciò a
baciare i piedi dei frati, il maestro uscì dal refettorio e andò a fare
anche lui una penitenza a suon di disciplina. Il novizio cambiò proprio vita
e divenne meritevole di avere pieni voti all’ammissione alla professione
religiosa.
Ma ci fu di peggio quando padre Guglielmo ordinò ad un novizio per santa
obbedienza, di immergersi dentro la buca del liquame della stalla. Il
novizio non fece una piega e corse, felice poi di avere vinto la ripugnanza.
Molto probabilmente quella notte anche padre Guglielmo si immerse nella buca
del liquame. Era sua abitudine sottoporsi alla stessa mortificazione che
imponeva.
Ci fu anche questa reprimenda di padre Guglielmo all’indomani della
professione semplice di un novizio. Questi la mattina, mentre a colazione il
lettore leggeva “I propositi di S. Giovanni Berchmans”, udì la parola
“rivoluzione”. Divertito si mise a dire: “Rivoluzione! Noi faremo
la rivoluzione...!”.
Padre Guglielmo non stette ad indagare che cosa intendesse dire il professo
circa il “Farem la rivoluzione”: subito gli ordinò che andasse a fare
la disciplina per lo spazio di tre “Miserere”, aggiungendo queste
parole: “Se sapevo che eri così ribelle, non ti avrei fatto fare la
professione!”. Parole queste durissime delle quali, anni dopo, chiese
più volte perdono all’interessato, al quale spiegò: “Ero inesperto”.
E il frate imbarazzato: “Padre, non stia lì a scusarsi, lei lo fece con
rettitudine”.
Ma quello fu un momento infelice perché usualmente il maestro ricorreva a
sistemi diversi, improntati ad un dolce senso di paternità. Quando, ad
esempio, vedendo un novizio distratto, un po’ con la testa nelle nuvole, lo
chiamava “incantatino”, richiamandolo così alla concretezza e quando
ai novizi più bisognosi diceva: “angiolino”
Testi base per le sue conferenze ai novizi erano il Vangelo, la Regola
di san Francesco, le Costituzioni, le vite dei Santi e, in particolare, il
testo “L’ideale di san Francesco”.
Il libro era stato donato da padre Leonardo da Mercato Saraceno con questa
dedica: “Al noviziato di Cesena, perché i giovani si ispirino all’ideale
del serafico Padre. Fra Leonardo - Ministro Provinciale”.
Quando arrivava per la conferenza, padre Guglielmo aveva sempre con sé una
pila di libri. I novizi sulle prime rimanevano impressionati, ma poi
vedevano che egli leggeva solamente una pagina in un libro e una frase in un
altro, come appoggio al suo dire, che era semplice, comprensibile.
Bravo nel canto, con la sua voce baritonale, insegnava il canto ai novizi
con l’accompagnamento di una pianola a pedale. Buoni erano i risultati. La
sua voce venne ascoltata più volte e, alla fine, venne invitato a far parte
del coro della cattedrale.
Nel noviziato, per farsi svegliare, adottò il sistema di una funicella
legata al piede. Il novizio che, al momento dell’alzata notturna, vedeva la
funicella fuori della porta doveva tirarla. La cosa diventò per tutti la sua
firma di professione di umiltà e semplicità.
La sua lotta contro il sonno tutti la vedevano quando, durante l’ufficiatura
notturna in coro, gli occhi gli si chiudevano. Una volta gli cadde persino
dalla mano il cucchiaio mentre stava desinando. Alla vista di queste
situazioni i frati, un po’ indispettiti, gli dicevano: “Dorma di notte!”.
Lui rispondeva con un “sì, sì, sì” disarmante, ma poi continuava,
dopo qualche giorno, a fare come prima. Cocciutaggine? No. Come, infatti,
andare a coricarsi quando il dolce Signore lo attirava a sé davanti al
tabernacolo? Così preferiva restare sveglio, pronto a sostenere le eventuali
riprensioni del giorno dopo. I santi non erano dei lottatori contro il
sonno? O degli inermi pacifici contro l’insonnia? Dunque bisognava
accogliere “la parte migliore”.
Gli esempi dei santi lo affascinavano e lo trascinarono per sino a mettere
di nascosto dell’assenzio nella sua minestra. Quando poi rientrava tardi e i
frati avevano già desinato, non cercava altro che gli avanzi molto scarsi
dei confratelli.
Il regime dietetico di padre Guglielmo era impressionante. Poco cibo, niente
carne, niente frutta e niente dolci. Un giorno padre Teodoro da Castagnaro
in refettorio lo chiamò ai suoi piedi e con parole nitide, decisissime,
inappellabili, gli disse: “Lei deve mangiare! Tutto quello che viene in
refettorio! Lo mangi tutto!”. A padre Guglielmo non restò che
destreggiarsi sulla misura delle porzioni, non privandosi più di nessuna
qualità di cibo. |