L'infanzia
di padre Guglielmo (Oscar: nome di battesimo) fu all'insegna della cultura
di un piccolo paese di montagna dell'Alta Valle del Reno.
Non fu difficile per il parroco don Pio Mazzetti rilevare in quel fanciullo
che tanto spesso entrava in chiesa a pregare i segni di una vocazione, che
trovò il suo percorso presso i Cappuccini, presenti a Porretta Terme. Il
giovane Oscar mostrò nei primi anni del collegio un temperamento combattivo,
ma nello stesso tempo rivelò una grande bontà di cuore.
Si vedeva in lui la gioia di essere tra i frati e la determinazione a
continuare il percorso intrapreso, che sempre più si chiariva alla sua
riflessione e alla sua scelta.
Giunse ai
voti solenni, poi all'ordinazione sacerdotale il 22 maggio 1938.
Avvezzo
all'esame di se stesso fissò poco dopo (15 settembre 1938) in un foglietto
un rigoroso programma di vita.
Sul medesimo foglietto il 16 novembre 1938 tracciava altri importanti punti,
in particolare si nota
questa preghiera:
“Ah, Signore! lo non posso sperare di attuare in me le sublimi ascensioni
dei santi (come
debbo
<sono sacerdote cappuccino francescano>) se prima non ho: a) vinto la
passione dominante; b)
purificato la natura corrotta e riparato con la contrizione”.
Questo biglietto lo conservò sino al termine della sua vita.
I primi incarichi che Padre Guglielmo ebbe furono nell'assistenza ai giovani
in cammino verso il noviziato e nell'insegnamento scolastico della geometria
e matematica.
Fermo ad una vita di grande ritiratezza, padre Guglielmo cominciò ad essere
in contatto aperto con le realtà fuori del Convento durante il passaggio del
fronte a Cesena nel novembre del 1944, quando si impegnò totalmente nel
soccorso dei feriti sotto i bombardamenti e nel visitare gli infermi
nell'ospedale.
Quella della visita agli infermi sarà un'opera che condurrà per tutta la
vita. Spesso sarà visto arrivare trafelato in coro a mezzanotte per il
mattutino, dopo aver fatto la salita al Convento: era andato a trovare
degli ammalati.
I superiori, nel maggio del 1946, gli assegnarono il compito di maestro dei
novizi nel convento di Cesena. Determinante in quegli anni per la formazione
francescana di padre Guglielmo fu un aureo libro: “L'ideale di san
Francesco”, di padre Ilarino Felder; libro che conservò sempre.
Come per il passato padre Guglielmo non lesinò nella pratica della
penitenza, specie del digiuno, tanto che venne costretto dai superiori
all'obbedienza di nutrirsi sufficientemente. Quanto al sonno se lo sottraeva
abitualmente, e per giaciglio aveva due o tre assicelle per terra. Spesso
portò il cilicio a punte di ferro, cosicché la cinta dei suoi fianchi venne
marcata da cicatrici.
Il 19 marzo 1952 andò, accodandosi a mons. Carlo Baronio di Cesena, a San
Giovanni Rotondo da padre Pio. L'incontro con lo stimmatizzato del Gargano
gli diede una viva percezione della santità. Aveva visto un grande
innamorato di Dio dal vivo. Dal vivo, perché padre Guglielmo, secondo le
raccomandazioni delle Costituzioni leggeva le vite dei santi e li ammirava;
ma li vedeva pur sempre attraverso una biografia.
Da quel momento si accentuò in lui il desiderio di una vita ancor più
conforme all'ideale francescano.
Non esitò: spesso si mise a mendicare un po' di cibo a varie porte, da
consumare segretamente nella sosta meridiana alle Cappuccine, che andava a
confessare.
Questi gesti non incontrarono sempre il favore dei confratelli, ma padre
Guglielmo aveva imparato da tempo a non contestare, a non accusare, e andare
avanti su ciò di cui era convinto. Del resto nessun divieto ebbe
in merito.
Nell'estate avanzata del 1963 padre Guglielmo ebbe l'occasione di ritornare
a San Giovanni Rotondo. Nel matroneo di destra della nuova chiesa padre
Guglielmo incontrò padre Pio e gli manifestò il suo proposito di vivere
l'altissima povertà così come la presentava la regola di Francesco. Padre
Pio accolse quel desiderio benedicendolo.
Per padre Gugliemo quella benedizione divenne un punto fermissimo del suo
cammino. Di lì a poco i confratelli e la gente lo videro con un abito tutto
a toppe. Le critiche fraterne non mancarono, ma padre Guglielmo non ritornò
indietro se non con una qualche moderazione delle toppe. Cercava non
l'esibizione, ma il disprezzo, il comparire vile, padre Guglielmo; ma
inaspettatamente per lui quelle toppe
erano il meglio per il mondo giovanile.
Per padre Guglielmo la povertà era umiltà, e quindi apertura agli altri,
tanto che la povertà la unì sempre
all'amore universale. La povertà integrale per
l'amore universale, era il suo programma.
Il decreto Perfectae Caritatis lo interpellò profondamente, come del
resto tutti i religiosi. Quel documento non si appellava solo ai vertici dei
vari Istituti, ma a tutti i religiosi.
Il documento invitava gli Istituti e i religiosi a scoprire meglio
l'autenticità del proprio carisma e nel contempo li invitava ad un
ripensamento, al rinnovamento delle forme in cui il carisma era stato finora
vissuto.
Un giorno, all'indomani della promulgazione del decreto Perfectae
Caritatis, chiese a don Giuseppe Rossetti relatore di un brillante
intervento sul decreto: “Cosa avrebbe fatto
san Francesco oggi?”.
La risposta fu che avrebbe fatto quello che fece allora. Parole queste che
si fondavano sulla perennità delle parole del Vangelo circa la missione dei
discepoli: “Non due tuniche, ecc”. Quelle parole non potevano essere
valide solo per il tempo di Cristo o di San Francesco.
Certo andavano ancor più comprese nel quadro della missione dei
discepoli, ma restavano.
Così sintetizzava, padre Guglielmo, il 15 luglio 1968, la sua comprensione
del decreto Perfectae Caritatis
pochi mesi prima che fossero promulgate ad experimentum le nuove
Costituzioni dell'Ordine dei Cappuccini:
“Si tratta di adattare la norma pratica a ragionevoli esigenze nuove, ma non
di rilassare lo spirito della regola
antica, né di contraddirne la lettera”.
Padre Guglielmo trovò nelle Costituzioni, promulgate il 26 novembre 1968, il
grande punto: “pluriformità
nell'unità”.
Punto miliare, questo, perché nelle Costituzioni passate si parlava invece
di “uniformità”.
Poteva
dunque portare avanti quelle forme radicali di povertà in cui credeva, senza
essere in nulla fuori dalle nuove
Costituzioni.
Il post-concilio, padre Guglielmo, lo visse col cuore, nell'esperienza della
preghiera, e non con un semplice fare intellettuale. Lo soffrì, fu per lui
un vero itinere spirituale e psicologico senza fughe in avanti; un
itinere a momenti doloroso di fronte a tante interpretazioni
superficiali.
Ben presto si formò in lui il pensiero di dare vita ad una piccola
fraternità di testimonianza, di fermento, nella sua Provincia religiosa. Non
era solo ad avere in quel tempo questa idea. Già le suore Cappuccine avevano
dato il via, a Lagrimone (Parma) ad un monastero di vita francescana
improntata alla radicalità. A Fabriano nelle Marche i Francescani Osservanti
avevano dato vita ad una fraternità dello stesso tipo; un altro esempio si
aveva a Napoli.
Il Capitolo Provinciale del 14-19 luglio 1969 aveva visto come augurabile la
formazione in provincia di una fraternità di forte testimonianza.
A padre Guglielmo parve che a Lagrimone, in relazione al monastero delle
Cappuccine, qualcosa germogliasse nel senso da lui voluto, cioè una piccola
fraternità, che pensò essere poi assorbita dall'Ordine dei Cappuccini. Ma il
risultato non fu in quel senso e si ebbe invece la fondazione di una piccola
fraternità di terziari di impronta eremitica. Lagrimone, tuttavia, fu per
padre Guglielmo l'occasione per incontrare centinaia di giovani, che
attirati dal fascino della sua persona, così dolce e nello stesso tempo
austera, vedevano in lui un grande punto di riferimento.
All'esperienza viva di Lagrimone, dove si recava per una settimana al mese
quale confessore delle religiose, seguì un pellegrinaggio a sosta
indeterminata in Terra Santa. Lo spinse a questo innanzitutto l'amore per
Cristo e per san Francesco, che tanto aveva amato la terra di Gesù; poi il
bisogno di fare il punto del suo cammino e infine la necessità di sottrarsi
all'assillo di un giovane, che aveva raggiunto punte preoccupanti.
La Provvidenza lo tenne fermo per quattro mesi a Gerico, presso la casa di
don Giuseppe Dossetti, dove si rese utile facendo lo sguattero, partecipando
in tutto alla vita della Comunità. Dalla Comunità di Gerico imparò molto sui
padri del deserto; in particolare fu colpito dalle lettere di Sant'Antonio
Abate, dalle quali trasse il nucleo del suo messaggio ascetico da dare alla
gente.
L'obbedienza lo richiamò ben presto in Italia, mentre era a Nazaret. Doveva
far parte della fraternità di Faenza per essere a disposizione dei
pellegrini al Santuario, sia per consigli e per una tradizionale
benedizione, sia per le confessioni.
Obbedì prontamente, con accenti di gratitudine verso il Signore.
Quando il 18 ottobre 1980 andò a Faenza, padre Guglielmo era lo stesso di
prima, eppure era diverso, di una mitezza ancor più marcata di quella che
già aveva conquistato lavorando su se stesso.
Era bellissimo avvicinarlo: ci si sentiva inondati di pace.
Il suo servizio lo sviluppò innanzitutto come accoglienza. Al Santuario del
SS. Crocifisso da tempo faceva capo tanta gente, che con la venuta di padre
Guglielmo di colpo aumentò in modo impressionante. Era gente semplice o
anche istruita, con qualifiche professionali; ma sempre gente con angustie,
con problemi.
Da lui andavano esauriti, persone frustrate, casalinghe, gente
economicamente con le spalle al muro, persone di precaria salute. Un'umanità
dolorante, spesso, che accoglieva con grande dolcezza, dalla quale non
pretendeva rapidi cambiamenti conciliari, ma che rispettava facendo
fare loro il gradino di cui erano capaci, senza cedere a compromessi. Per
ore e ore restava in piedi nella cappella del SS. Crocifisso. Mai ha usato
di uno sgabello per alleviare la fatica.
Poi ore in ginocchio alla sera per accogliere al telefono le ansie, i
dolori, le incertezze, gli smarrimenti della
gente.
Obbediente sempre al superiore, vivo nella carità fraterna, padre Guglielmo
mostrava alla gente il volto di un vero frate di Francesco.
Non che non fosse capace di avere toni severi con chi meritava la terapia di
una forte scossa, che diverse volte adottò, ma padre Guglielmo guardava
sempre gli altri come un capolavoro. Vedeva gli altri in Dio e Dio negli
altri. Sempre cercava di vedere il positivo, tanto che la gente si
meravigliava sentendosi trattata con
tanto impegno.
Ma padre Guglielmo sapeva trattare anche coi “grandi del mondo”, come
ben si vide nel rapporto di amicizia con Raul Cardini e sua moglie Idina.
Quando a palazzo Dario di Venezia venne chiamato dalla signora Idina Gardini
per benedirlo, padre Guglielmo, toppe e zoccoli, modi umili e vivi, sembrava
un vero principe sotto la luce dei lampadari di Murano.
Accanto, e
ancor prima, al suo servizio di accoglienza festosa e di sapiente consiglio,
padre Guglielmo metteva la preghiera e la penitenza, come sempre aveva
fatto. Le ore di sonno si limitavano a due o tre, il resto della notte lo
passava in preghiera davanti al Tabernacolo o davanti al SS. Crocifisso.
Tante le volte che il Parroco che dalle opere parrocchiali entrava in
convento passava dalla chiesa inciampò in padre Guglielmo prostrato a terra
in adorazione.
Come forme penitenziali aveva fatto anche lui
l'aggiornamento.
Finito l'obbligo della disciplina comune, trovò la forma penitenziale di
dire il rosario con le mani sotto le ginocchia. Non mancò di essere
parsimonioso nel cibo e continuò a dormire sul pavimento.
Aveva un giorno di riposo alla settimana, ma padre Guglielmo lo trasformò in
un giorno di maggior lavoro andando a Cesena a confessare le Cappuccine e ad
accogliere tanta gente che lo voleva incontrare; poi andava a Città di
Castello a confessare mons. Pellegrino Ronchi, e anche qui gente.
La formazione permanente, dovere di ogni frate e sacerdote, padre Guglielmo
la faceva. Partecipava ai corsi di aggiornamento, seguiva gli avvenimenti
ecclesiali nell'Osservatore Romano.
Camminava. E così da un prima posizione negativa avuta negli anni sessanta
circa la televisione (ma va notato che era relativa al tenore di diverse
trasmissioni e all'ingresso nei conventi come pericolo di divagazione e non
come mass-media in sé) passò a considerane l'opportunità di dare vita ad una
"televisione mondiale del Papa". Chiese luce ai superiori, chiese parere
alla Santa Sede, e poi sapendo che era stata istituita TelePace
decise di appoggiarla in tutto. Fondò quindi a Faenza un'Associazione per
TelePace la quale riuscì a trovare le somme necessarie per mettere in
ponti di TelePace in tutta l'Emilia Romagna.
Fu una grande festa per lui quando Giovanni Paolo II andò a Cesena e poi
passò per Faenza. Riuscì ad incontrarlo nell'Abbazia del Monte a Cesena il 9
maggio 1986 e gli consegnò una somma di denaro e il suo impegno per la
“Televisione del Papa”. Grande amore aveva padre Guglielmo per il Papa,
ne seguiva i discorsi e lo accompagnava con la preghiera nei suoi viaggi
planetari.
Fermo nel
suo proposito di vita radicalmente povera, padre Guglielmo, non aveva nulla
da dire sul denaro come mezzo di scambio. Spesso l'ebbe tra le mani sia al
momento della costruzione del Convento delle Cappuccine a Cesena che a
Lagrimone, sia per la costruzione della casa di accoglienza a Lagrimone
chiamata “Casa del Padre”.
Ma al di là di questo cercò sempre di esserne distante. Fu un problema
che lo assillò sempre, quello del denaro. Non gli mancavano delucidazioni
nei cammini di formazione dell'Ordine circa l'uso del denaro, ma padre
Guglielmo aveva assaporato la dolcezza di essere totalmente povero, nelle
mani di Dio, e non sapeva rinunciarci, o non sapeva accettare e risolvere il
tormento di avere del denaro in tasca, come i tempi attuali
impongono.
Ma padre
Guglielmo in tutto il suo procedere era un orante e quanto non tornava nella
sua unione con Dio lo rimuoveva. Rimase sempre col suo grande impegno di
povertà radicale, condiviso da suor Chiara Scalfì, fondatrice del monastero
di Lagrimone, padre Natale Montalti e fra Lino Giorgi.
Erano “i suoi tre”, come usava dire e lasciarono la terra uno dopo
l'altro il mese di aprile del
1998.
La salute
di padre Guglielmo accusava ormai gravi problemi, soprattutto aveva problemi
di cuore, poi sorse un "pemfigoide bolloso" che lo colpì in tutto il corpo.
Nonostante questo andava avanti.
Poi arrivò
l'epilogo della sua vita.
La mattina del 15 gennaio dopo avere confessato tre persone si sentì male.
Venne portato dai confratelli in una stanza al piano terreno. Venne chiamata
l'ambulanza, mentre il superiore gli amministrava l'olio degli infermi.
Sussurrò alcune parole: “E’ il Getsemani”; “Offro la mia vita per il
Papa, per la Chiesa, per tutti”: (era questa un'offerta non del momento,
ma fatta in tutta la sua vita); poi disse: “Perché il Papa possa arrivare
al prossimo millennio”. Ai confratelli disse:
“Vi benedico”.
Alle ore
7,15 del 15 dicembre, steso sul pavimento, proprio come aveva trascorso le
sue notti, emise il suo ultimo respiro
e lasciò la terra. |